A proposito di futuro.

Sabato scorso, 11 giugno, la trasmissione di Radio3 “tutta la città ne parla” ha trattato il tema “il futuro del lavoro e i lavori del futuro” all’interno della festa “arte, cultura e lavoro”. Mi è venuta voglia di trascrivere due dei punti di vista espressi nel corso della trasmissione perchè hanno riguardato degli spunti importanti su cui riflettere e che ho trovato particolarmente stimolanti per ripensare al lavoro ed alle sue prospettive nel futuro.
Ho scelto di trascrivere il discorso di due degli esperti interpellati: Aldo Bonomi e Riccardo Staglianò. Sociologo e fondatore del Consorzio A.A.S.TER., famoso per la sua definizione del capitalismo italiano come “capitalismo molecolare” oggi diventato poi “capitalismo infinito” il primo, giornalista di Repubblica, inviato del Venerdì  e autore del libro “Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro”, il secondo.

Crescono le ore lavorate perchè ci sono più occupati, ma non cresce con altrettanta velocità il PIL, il fatturato di quel lavoro. Cioè l’Italia non cresce o cresce meno. Significa che siamo meno bravi di un tempo a produrre cose di qualità, che rendono,  rispetto ad un tempo?

Innanzitutto non esiste più la piazza universale dei mestieri. E’ cambiata senza che noi ce ne accorgessimo, presi dal “guardare il dito (i numeri) senza porci il problema della luna”. Significa che ogni mese o trimestre siamo tutti molto attenti ad aspettare i dati ISTAD e guardiamo allo zero-virgola di variazione percentuale che i dati ci possono raccontare: la disoccupazione è 12,1 o 12,3 percento?  la disoccupazione giovanile è al 40,2 o al 40,1 percento? Il problema non è il dito ma la luna, cioè la domanda se si può tornare ai salti d’epoca e a quelli che sono i grandi cambiamenti avvenuti negli ultimi 30 anni rispetto alla dimensione del lavoro. E se sì, quali sono questi cambiamenti? Noi continuiamo ad avere  una concezione del lavoro come se fossimo ancora dentro la società verticale fordista: la grande impresa, la grande azienda pubblica, la banca, l’ impiego a vita, con annessi e connessi (l’ asilo pubblico, il welfare, le pensioni, ecc).

 

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Il manager delle stelle: foto di @maninmente al Fuorisalone della Milano Design Week – aprile 2016

Ma, quell’epoca è in crisi. Quella dimensione del lavoro non c’è più.

In secondo luogo, stando al primo postfordismo, nella società è orizzontale in cui la competizione si svolgeva dentro e fuori di essa, ci hanno detto che se volevi lavorare dovevi fare piccola impresa (in Italia questo ha rappresentato il cd ‘capitalismo molecolare’, e su questo livello si è dimostrata un paese virtuosissimo ) o, se eri giovane,  aprire una partita IVA.

In terzo luogo oggi ci sono i narratori. E il “raccontatore” per i pellegrini, oggi si chiama Airbnb o UBER. Se vuoi spostarti, devi cercare UBER, e se vuoi andare incontro ai pellegrini, devi decantare sulla rete la bellezza del tuo piccolo appartamento che metti in vendita su quel sito. Questo è il grande cambiamento: sta avanzando la società circolare. Siamo tutti in circolo ‘allegramente’.

Ma la società circolare si divide in due grandi cambiamenti: o è ‘ruota della fortuna’ ( e qui qualcuno ce la fa, come qualche start up appena nata  e che fa immediatamente 10 milioni di dollari. Ma quante sono? tutti ci dicono ‘fate le start up e avrete raggiunto la fortuna’) o è ‘la ruota del criceto’ ( ad es: la piattaforma per lavare la macchina che al costo di 14 euro ti manda a casa un ‘servo’ che ti fa il lavoro ed il cui compenso partecipa come “un caporalato antico” al 30% agli incassi della start up).

Questo è il punto critico dove occorre scavare.

Nel capitalismo molecolare tutta la famiglia contribuiva al lavoro e faceva impresa. Nel fordismo è l’uomo bianco europeo maschio che aveva diritto alla pensione (in seguito anche la donna) che contribuisce, nella visione ideal- tipica del lavoro, alla produzione.

Oggi, nella società circolare, ciò che conta è la cittadinanza attiva. Da una parte essa deve provvedere e muoversi nel welfare (quindi dobbiamo occuparci giustamente dei grandi temi, che sono i temi drammatici dei rifiuti, dell’acqua, dell’ambiente, di un volontariato che include) e dall’altra deve correre. Senza dimenticare di stare attenta allo storytelling  fatto dai grandi gruppi (i raccontatori, gli affabulatori) quando ci ammiccano dicendoci “ragazzi entrate dentro, perchè qui c’è il miglior mondo possibile”. Questa società circolare deve rimettere invece dentro, nella dinamica della storia, proprio la storia della società, smettendo di parlare dello ‘zero virgola’ ma parlando piuttosto di un destino di cambiamenti d’epoca che tocca tutti.

E lì dentro ci sta anche la dimensione dei migranti, che non è un problema caritatevole ma un problema di numeri: nei paesi subsahariani l’età media è di 15 anni, nei paesi europei, di 45, nell’ Italia, un po’ di più. Meno siamo, più decliniamo e siamo destinti a morire.

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foto di @manimente: allestimento Citizen al Fuorisalone, Milano Design Week, aprile 2016

Il futuro ci fa paura. Solo il grande modello rassicurante delle organizzazioni sindacali, delle grandi imprese e dei partiti di massa verso le quali i lavoratori avevano fiducia, poteva garantire l’ottimismo e la sicurezza nel futuro?

No, nessuna nostalgia per il passato semplicemente perchè non torna più, non per altro. Però attenzione: avere memoria del passato è importante perchè in quel passato c’era la rappresentanza della forza del lavoro che contava di più. Ora dobbiamo pensare come le forze dei nuovi lavori organizzano a loro volta nuove forme di rappresentanza per mettere una ‘zeppa in mezzo alla ruota del criceto’. Quindi tenere conto della memoria del passato ci serve per cominciare nuovi processi di organizzazione rispetto a questo.

Il futuro certamente fa paura ed è incerto però bisogna entrarci dentro semplicemente senza essere subordinati alle retoriche che vengono solo dell’economia.

Claudio Napoleoni, grande economista, diceva ” tra economia e politica bisogna mettere in mezzo la società“. Oggi c’è un predominio dello storytelling dell’economia, della finanza e dell’innovazione e c’è una politica un po’ subalterna: bisogna rimettere in mezzo la società, con i suoi problemi concreti e reali di cui il futuro dei giovani e dell’occupazione è uno dei principali.

Quale forma le imprese devono avere? “piccolo non è più bello” ha detto il presidente di Confindustra Boccia.

Nessuno ha mai sostenuto che “piccolo è bello”. Si tratta di una diatriba antica tra i sostenitori dei ‘cespugli’ e i sostenitori della grande impresa. Beccattini, grande maestro, dice “intimo è bello”.

Sono i nessi di connessione della società e del territorio che contano. Bisogna ripartire da qua. Il problema non è più la proliferazione delle piccole imprese, dei capannoni: non è più quel modello, ovviamente. Bisogna invece rimettere assieme i meccanismi di territorio, i territori che hanno coscienza di sè e si rapportano con i flussi. Il paradigma della modernità sono i flussi del grande cambiamento che impattano nei luoghi e li cambiano culturalmente, antropologicamente, storicamente, socialmente.

Quanti cambiamenti abbiamo dovuto vivere dall’inizio del nuovo secolo ad oggi? tantissimi, eppure una città – se ha coscienza di sè – incomincia a ridisegnare se stessa. Ripensare la coscienza di sè serve per produrre nuove forme di rappresentazione, nuove forme di lavoro, nuove forme di cultura. Dipende da questo: dalla coscienza dei luoghi, e dalle nostre coscienze di mettere insieme dei meccanismi di contrasto alla pura logica di globalizzazione che vengono avanti.

 

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foto @maninmente; allestimento al Fuorisalone Milano Design Week – aprile 2016

L’immaterialità del digitale: noi dobbiamo stare accorti rispetto a quali minacce? Le start up piccole o le grandi realtà del web ? (risponde Riccardo Satglianò)

Il problema delle tante ore lavorate e di una crescita più bassa dipende dal fatto che abbiamo scambiato il lavoro con i lavoretti che è anche il problema della sharing economy (o gig economy). Si fanno lavori degradanti che rendono meno, che hanno salari peggiori e che per diventare adeguatamente consistenti devono essere numerosi. Questa è la sharing economy.  A livello di numeri se si guarda al numero di lavoratori, Air B&B ha superato, a Parigi, in pochi anni, per fatturato Hilton e Marriot, le più grandi catene alberghiere. Guardando dal punto di vista dell’utente l’ utilità immediata che ne ha ricavato è evidente. Al secondo livello, invece, Air B&B conta 24 impiegati contro 200.000 addetti dell’intero settore alberghiero, a Parigi. Ma soprattutto il dato più éclatante è che le tasse pagate dal primo, a Parigi, ammontavano ad 84.000 € contro i 3,5 miliardi, dei secondi. Cosa vuol dire? Le tasse si trasformano in servizi e sono soldi in più per la collettività: se si tolgono, si impoveriscono le persone.

Quindi la grande falsificazione sulla sharing economy è che è un modo democratico per arrotondare.

Ma la vera domanda che ci si deve porre è: perchè abbiamo bisogno di arrotondare? una volta non c’era bisogno di arrotondare, una volta c’erano degli stipendi, e ne poteva bastare anche uno solo.

Sono le varie crisi, il cambiamento dell’economia dagli anni ’80 ad oggi che ci hanno impoverito e che rappresentano la causa di tutto questo. Quindi c’è bisogno di affittare una stanza libera o di utilizzare una macchina che non usi abbastanza, per condividerne l’utilizzo con altri e trarne un guadagno. Ma questo è solo una parte del problema.

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foto di @maninmente al Fuorisalone della Milano Design Week- Aprile 2016

Il vero problema è che se dopo la prima rivoluzione industriale  perdevi un lavoro, ne trovavi subito dopo un altro nei servizi, mentre adesso, coi servizi sempre più automatizzati,  trovare un lavoro è diventato improbabile. Non c’è più salvezza.

Il problema si è diffuso anche nelle professioni ad alto contenuto cognitivo come quelle dei professori universitari, cioè del top della piramide cognitiva. Grazie alle dinamiche di scala che la rete consente è successo infatti che un solo professore è in grado di insegnare ad una platea di 160.000 studenti di tutto il mondo. Il professore è Andrew Ng, che ha fondato con una collega la piattaforma online Coursera e da solo gestiva 160.000 studenti. Se un professore gestisce da solo 160.000 persone, cosa fanno nel frattempo gli altri insegnanti?Andrew ha fatto un conteggio in cui ha verificato che per raggiungere lo stesso numero di studenti utilizzando una didattica somministrata in modo tradizionale – cioè in aula – gli sarebbero serviti 250 anni accademici. Di questo si sta parlando. Se una persona serve a così tante, le altre persone che fanno il suo servizio non servono più.

Associated press , una delle più importanti agenzie di stampa su scala mondiale, utilizzando dei software di cui paga solo la licenza d’uso, redige degli articoli facendo a meno dei giornalisti. In questo modo si libera dei collaboratori che chiedono variazioni contrattuali, permessi, aumenti di stipendio, si alzano per il caffè o il bagno, contestano per svariati motivi.

Ancora: ci sono macchine che fanno anestesie quasi in automatico, attivate da un solo infermiere e che permettono di sostituirsi all’anestestista che costava ogni volta 2.000 dollari. La macchina interviene invece alla modica cifra  di 200 dollari. Non ci sarà quindi più bisogno di anestesisti.

Nel termine “sharing” , condivisione, potrebbe esserci nascosto – come modo di lavorare – anche qualcosa di nuovo che prima non c’era, come il bisogno di socialità? così frammentata, individualizzata, atomizzata, dove si fatica a trovare lavoro, la sharing economy permette di farsi nuovi amici? Per esempio in una trasmissione in cui si parlava di Uber un’autista diceva che in quell’ attività aveva trovato una dimensione nuova di socializzazione. Altrettanto per le persone che affittano pezzi di casa creando esperienze di viaggio che non era nelle loro disponibilità creando legami nuovi. Questo non ha valore?

Questo corrisponde alla retorica delle narrazioni di Travis Kalanick di Uber e Brian Chesky co-fondatore di Air B&B, i quali dicono di voler restituire la fiducia nelle comunità e che bisogna far sì che gli individui possano trovare delle maniere per fare dei soldi in più. Peccato poi che si scopre che il 13% di quelli che mettono annunci su Air B&B rappresentano il 40% del suo fatturato e sono non singoli individui ma grandi proprietari immobiliari. Il caso più éclatante è raccontato in un libro di Roo Rogers e Rachel Botsnam “what’s mine is your” che raccontava che l’appartamento più caro di Roma che costa 475 euro a notte è di un signore che si chiama Martin di Austin, Texas, e che ne ha un’altra decina sparsi nel mondo. E’ un imprenditore che ha fatto soldi con la tecnologia e che per diversificare ha comprato delle case nel mondo e le affitta. Ci sono anche i singoli che affittano e che generalmente ne hanno bisogno. Ma soprattutto c’è un’ipocrisia molto forte. A un certo punto lo scorso anno ad una conferenza, il fondatore di Uber,  di fronte all’accusa che i prezzi di Uber non sono così convenienti,  ha annunciato candidamente che la motivazione dipende dal fatto ‘”c’è l’altro tipo nell’auto: quando faremo fuori l’autista i prezzi di Uber andranno così giù che non ci sarà più bisogno di un’auto”. In America gli addetti al trasporto sono 3,5 milioni di persone che, con l’indotto, arrivano a 5 milioni di persone impiegate.

Riflettiamoci su.

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foto di @manimente al Fuorisalone della Milano Design Week – aprile 2016

L’archivio del saper fare della moda

La Moda utile.

dalla mostra Il Gusto della Contaminazione - Modena 28 maggio-19 luglio 2015- Cappello Fiori e Frutta

dalla mostra Il Gusto della Contaminazione – Modena 28 maggio-19 luglio 2015- Cappello Fiori e Frutta

La moda è per le donne – ma non solo – un mondo ricco di fascino e insieme uno strumento per la propria bellezza e il proprio charme. Un mondo identificato spesso come “effimero”,  fatto dei sogni del protagonismo estetico di ognuno . Gli anni ‘80-2000 rappresenteranno l’ apoteosi del fashion system e insieme la celebrazione di “dandismo ” e “yuppismo” nei costumi. Forse quel periodo non sarà neppure più replicabile, tuttavia, il mondo della moda ha rappresentato – qui in Emilia, in particolare – una importante fonte di attività per molte donne, e uomini. Inoltre è il contenitore di gusto e cultura di un periodo, la storia di noi tutti attraverso i segni e i simboli di un’epoca. Ma oggi è anche un’altra storia…

La Moda alle origini…

Quando dal secondo dopoguerra le opportunità ed i bisogni da soddisfare si sono resi più urgenti, la gente dell’Emilia – Romagna, terra di contadini e botteghe artigiane, ha riposto ad essi tempestivamente con l’intraprendenza e la laboriosità che la caratterizzano.

addetta alle riparazioni presso Modateca Deanna

addetta alle riparazioni presso Modateca Deanna

Grazie alla moda anche le donne, impegnate tra famiglia e casa, hanno potuto dedicarsi ad una “produzione manifatturiera” senza dover sacrificare per questo gli impegni domestici e contribuendo così all’ economia familiare attraverso le proprie mani ed una macchina da cucire collocata nella cucina, tra i fornelli. Si fa risalire l’origine dell’organizzazione del lavoro di queste singole sartine, camiciaie e magliaie all’ arte del truciolo, che diffonde in Emilia la cultura dei “gruppisti”, cioè di coloro che tenevano le fila dei diversi artigiani lavoranti al proprio domicilio. Da lì il passo è stato breve verso il consolidamento negli anni ’50-’60 della lavorazione meccanica della maglieria che porrà le basi del distretto tessile di Carpi e della Romagna. Qui avrà sede la produzione di eccellenza della maglia nella moda Made in Italy.

macchine lavorazione maglia - archivio Modateca Deanna

macchine lavorazione maglia – archivio Modateca Deanna

Sono già gli anni ’70, quelli in cui le produzioni diversificate e differenziate per uso, stile di vita, età e condizione economica prefigureranno nuove professionalità come quelle di modellista, stilista, responsabili di prodotto, per citarne solo alcune. Senza dimenticare il ruolo delle tante imprenditrici del settore.

Il libro “Donne nella moda” racconta le storie vere di alcune delle protagoniste del settore in provincia di Reggio Emilia: sono storie reali, seppur romanzate – come succede quando si riannodano i fili dei ricordi – ma sono storie che ci interpellano sul futuro. Anche perché alcune di queste rappresentano un momento definitivamente concluso (Maska, per esempio o Mariella Burani, importanti aziende locali entrambe fallite).

La Moda secondo Miss Deanna

Deanna Ferretti Veroni - archivio foto Modateca Deanna

Deanna Ferretti Veroni – archivio foto Modateca Deanna

La storia di Deanna Ferretti Veroni, titolare dell’azienda Miss Deanna, è diversa da tutte le altre. Anche lei ha iniziato negli anni ’60, finite le scuole commerciali, cominciando con intraprendenza, volontà e senz’altro anche quel po’di fortuna che serve non lasciarsi sfuggire. Così appare nel suo racconto. Ma quello che più colpisce, e che la differenzia da tutte le altre protagoniste, è – oltre alla sua sensibilità artistica – il fatto che lei sia riuscita a cogliere nella collaborazione con i “giovani d’oggi” (stilisti soprattutto) un’opportunità che potremmo chiamare “intergenerazionale”. Il professionista maturo lavorando in sinergia col giovane designer creativo riesce a sperimentare nuove alternative di produzione, innovando. Altre donne, forse perché in ruoli diversi, forse perché non sempre imprenditrici, nel libro sono più “autoreferenziali”.  Spesso si soffermano a rimarcare soprattutto la loro forte dedizione al mestiere ed a contrapporsi alle generazioni attuali, reputate così diverse nei loro ideali di autoaffermazione. Un cliché che non tiene conto della profonda differenza tra ieri e oggi.

Modateca prima e poi

24/11/2008 - San Martino in Rio - Italia - Nuovi spazi e nuova disposizione dei capi del Centro Internazionale Documentazione Moda MODATECA DEANNA. Autunno/Inverno 2008 - Photo Stefania IEMMI

24/11/2008 – San Martino in Rio – Italia – Nuovi spazi e nuova disposizione dei capi del Centro Internazionale Documentazione Moda MODATECA DEANNA. Autunno/Inverno 2008 – Photo Stefania IEMMI

Miss Deanna nasce come azienda produttrice di maglieria nel 1970 scommettendo sulla collaborazione con l’allora giovane stilista Kenzo. Nel 2002 viene ceduta al Gruppo Armani e nel 2014 viene trasferita definitivamente a Baggiovara di Modena.

Cosa rimane di quel passaggio che non è solo generazionale ma anche strutturale, visto che Miss Deanna non esiste più?

Rimane un archivio ricchissimo con più di 50.000 capi creati da stilisti famosi – da Kenzo a Giorgio Armani e Krizia, da Martin Margiela a Neil Barret e Lawrence Steele, inclusi capi reperiti da altri marchi come Mariella Burani che hanno fatto la storia della moda, ed i capi qui archiviati dagli stessi stilisti che vi depositano le loro collezioni storiche. Non ci sono solo abiti preziosi che danno testimonianza dell’ideazione dei creativi, ma anche un compendio delle lavorazioni tecniche e dei materiali utilizzati e dai quali risalire alle lavorazioni e produzioni del passato. Un archivio appunto del saper fare. Accanto a questi capi sono disponibili gli accessori, i filati, i telini prova, i campionari di tessuti. E ancora, le riviste d’epoca di moda, i libri, le foto, la documentazione delle immagini di sfilate e tutto quello che può testimoniare lo stile fashion di un periodo

Sonia Veroni - archivio Modateca Deanna

Sonia Veroni – archivio Modateca Deanna

Nel 2004 così, all’interno di alcuni spazi del maglificio Miss Deanna, prenderà sede Modateca Deanna. Il progetto è innovativo ed alla sua ideazione provvede Sonia Veroni, figlia della fondatrice Deanna, e richiamata dagli USA in Italia per consentire una nuova vita al patrimonio di prodotti rimasto all’azienda.

Oggi questo patrimonio viene messo a disposizione degli uffici stile, dei professionisti e delle scuole (come il Naba o l’Università del design di Milano) per essere consultati, studiati e ripensati attraverso servizi di didattica, ricerca on site e ricerca personalizzata. Ma non solo: Sonia collabora come curatrice alla realizzazione di varie mostre di cui l’ultima qui a Modena.

A Modateca funzionano un archivio campionario, con le linee di maglieria di Miss Deanna dal 1960 al 2004 e costituito dagli oltre 10.000 capi; un archivio vintage, di 40.000 capi attraverso i quali è possibile seguire il trend dello stile dai primi del ‘900 fino ai giorni nostri; un archivio tecnico, utile per studiare le varie tecniche di costruzione dei capi e il loro diverso confezionamento nel tempo in relazione alle tendenze; la biblioteca, con più di 3.000 volumi di soggetti ed epoche diverse e l’ emeroteca, con oltre 20.000 numeri tra le più famose testate a livello internazionale, dai primi del ‘900 ad oggi e reportage delle sfilate di Pret-à-Porter ed Alta Moda di  New York, Londra, Milano, Parigi.

Il materiale è una ricca fonte di ispirazione creativa e produttiva a disposizione del pubblico specializzato del settore.

Sonia è entrata nel 2013 ed ha impiegato due anni, fino al 2015, per organizzare Modateca così come lei la concepiva. Oggi l’esposizione cambia e viene integrata, in un continuo aggiornamento ogni 6 mesi.

Il futuro e le sue geografie creative

Mostra anni '80 Modena, maggio 2014

Mostra anni ’80 Modena, maggio 2014 – Archivio foto Modateca Deanna

Questo esperimento testimonia la geniale evoluzione di un’attività familiare che può ben essere presa a paradigma di come la tradizione può evolvere in modo creativo, pur a fronte della crisi del settore, trasformandosi addirittura in un ulteriore successo. E’ la dimostrazione ancora che dalla cultura del lavoro del passato si possono recuperare ed aggiornare gli spunti per produrre innovazione. Se la tendenza che manifestano oggi gli Stati Uniti, passati da un’economia manifatturiera ad una fondata sulla conoscenza e sull’innovazione, è paradigmatica per l’evoluzione futura dell’economia italiana, questo esempio incarna quell’idea in modo “italiano”.

Moretti ben sintetizza il fenomeno scrivendo che:

il fattore produttivo essenziale sono le persone: sono loro a sformare nuove idee (….) quindi non il capitale fisico , o qualche materia prima, ma la creatività, (….) e l’ecosistema produttivo in cui è inserita (la città e l’ambiente)” (da La nuova geografia del lavoro).

La mostra La mostra “Il Gusto della Contaminazione” a Modena, curata in collaborazione da Sonia Veroni e Pietro Cantore, e visitabile dal 28 maggio al 19 luglio 2015, è un esempio tangibile di tutto questo.

Trasversalità, creatività e nessun indugio a rompere confini fino a poco fa temuti – come quelli tra cibo, vestire e arte-  rappresentati in questa mostra, stimolano nuove possibilità.
Per nuovi lavori, nuove imprese e per ripensarsi.

Senza racconti di parole lascio alle foto il compito di fare da guida al racconto e da sintesi finale.
Buona visione e buoni pensieri creativi a tutti!

* un grazie speciale a Sonia Veroni, titolare di Modateca, che mi ha accolta ed accompagnata attraverso la storia di Modateca Deanna e nella lettura della mostra di Modena, Il Gusto della Contaminazione.

Grazie anche alla sua assistente personale, Jessica Carlini ed a Moira che mi hanno accolte e aiutata nella mia visita reale agli archivi e biblio-fotografica, con pazienza.

Servizievolmente…a servizio.

maggiordomo I

Nei film….

Sta succedendo – è ormai evidente a tutti – un fenomeno in cui mestieri che nel passato recente sono stati disconosciuti, oggi riconquistano una visibilità e un’ attenzione rinnovate. Sarà quello che un po’ di tempo fa veniva chiamato ‘riflusso’? O sarà che in epoca di risorse scarse si riescono a valorizzare anche le briciole? Forse più  semplicemente questo atteggiamento è l’ultima opportunità che ci è rimasta per riabilitare e riconoscere al lavoro – a tutti i lavori –  attributi di qualità che prescindono dalla sua tipologia e dipendono invece da come questa qualità del lavoro viene espessa (in termini di cura, talento e disciplina).
E’ bastato un film ,“The Butler” (per non citare i meno recenti “Quel che resta del giorno” col maggiordomo magistralmente interpretato da Anthony Hopkins, o la  trilogia di Batman, con il suo Alfred, alias Micheal Caine) per raccontare, seppur su un caso esclusivo e col linguaggio da spettacolo del cinema, il lavoro del maggiordomo. Detta così, risulta facile riuscire ad attirare l’ attenzione: alla Casa Bianca, a servizio di Presidenti come Truman fino a Reagan, di personaggi che hanno fatto la storia recente dell’America. Chi non vorrebbe fare un tale mestiere ? Però a chi potrebbe capitare una simile occasione? Ma a guardare meglio non era per nulla scontato che Eugene Allen, un uomo di colore, rimanesse a servizio dal 1952 al 1986, né era scontato che gli venisse riconosciuta pari dignità come uomo e come persona del mestiere.

La storia di Filippo e la Scuola di Serramazzoni:

Filippo coi colleghi

Filippo coi colleghi

Credo però che ai giovani di oggi basterebbe la storia di Filippo.

27 anni, un Diploma Eurhodip alla Scuola di Serramazzoni come assistente maître. Dal gennaio 2014 lavora a New York come Training Food and Beverage Manager al ristorante “Tarallucci e vino” , quello sulla 18sima.

Ma questa è la fine della storia: partiamo invece dall’inizio.
Tutto comincia a 15 anni con la scelta del percorso di studi, perché la qualità del lavoro si inizia a costruire proprio da lì.

L'ingresso della Scuola Alberghiera di Serramazzoni

L’ingresso della Scuola Alberghiera di Serramazzoni

A Serramazzoni, alla Scuola Alberghiera e di Ristorazione (una Hotel School dove si vive e studia in full immersion per 5 giorni alla settimana), si formano allievi addetti alla cucina, alla sala e al bar. Due anni formativi di 1000 ore ciascuno, per diventare operatore della ristorazione ed un terzo anno di specializzazione di 800 ore di cui 480 di stage, in Italia o all’estero. L’obiettivo della scuola, dichiarato espressamente dal suo Direttore Giuseppe Schipano, è quello dirispondere all’emergenza del rilancio e della promozione del patrimonio enogastronomico italiano qui e nel mondo, grazie a figure preparate e professionali. Capaci di cogliere le novità e aperti agli stimoli esterni, gli studenti sono divenuti negli anni veri e propri ambasciatori dei nostri prodotti di eccellenza nel mondo.” E così interpretano il nostro futuro o come vorremmo essere conosciuti per il nostro Made in Italy.

Un'allieva nel Ristorante della Scuola Alberghiera di Serramazzoni

Un’allieva nel Ristorante della Scuola Alberghiera di Serramazzoni

Un elemento determinante nella storia di Filippo, e non comune alla scuole in generale, è la disciplina che la scuola impone e che si sintetizzata in 19 regole scritte. Lo studente è tenuto a firmarle e a rispettarle; lo stesso dovranno fare i suoi genitori, assecondandolo nell’impegno. Un “colpo basso” per il politically correct che le scuole tentano oggi di applicare, messe a dura prova dalle incursioni imprevedibili e destabilizzanti di genitori produci-figli-mammoni e disorientati (ricordiamo i recenti poco felici episodi delle botte alla dirigente di una scuola perchè aveva consentito la bocciatura dell’alunna).

Nella scuola di Serramazzoni per esempio non sono ammessi jeans strappati, tatuaggi, piercing, scritte volgari su magliette e jeans, tinte per capelli non naturali ecc.. Inoltre è vietato fumare e utilizzare telefoni cellulari, pc e portatili all’interno della struttura, pena una sanzione pecuniaria.

Un angolo del Ristorante della Scuola di Serramazzoni

Un angolo del Ristorante della Scuola di Serramazzoni

La scuola diventa qui l’anticamera del lavoro vero: terminati gli studi ogni futuro artigiano della ristorazione ( e potenzialmente futuro professionista, quando non imprenditore) sarà chiamato e tenuto a comportarsi in modo disciplinato verso se stesso e gli altri (colleghi o clienti) e dovrà imparare a rispettarli. Svilupperà una reale capacità di convivenza e collaborazione con i colleghi di lavoro con cui dovrà condividere gli spazi di vita quotidiana, lavorando, dormendo e mangiandoci insieme.

La cantina del Ristorante della Scuola di Serramazzoni

La cantina del Ristorante della Scuola di Serramazzoni

A 15 anni imparerà a vivere già da solo, sempre lontano da casa, senza tutte le comodità che di solito la famiglia gli garantisce, costretto a gestirsi individualmente le proprie paturnie di adolescente che cresce e che sta velocemente costruendosi il proprio futuro lavorativo. Inoltre apprenderà rapidamente la capacità di gestire con oculatezza i piccoli grandi patrimoni guadagnati col lavoro stagionale.

In questo modo si preparerà ad essere un professionista: è un bagaglio pesantissimo ma insieme fondamentale per la crescita individuale e la maturità relazionale di questi artigiani della ristorazione. Ed è anche un’esperienza selettiva: resiste solo chi persevera.

Ma la precoce durissima esperienza non preclude altro che ad un non meno duro lavoro futuro, seppur ben retribuito. Master chef, o analoghi format televisivi di successo che parlano di cucina, non fanno vedere che si diventa cuochi, camerieri, sommelier, barman o maître di sala solo dopo un percorso faticosissimo e che questi lavori sono svolti al servizio di chi è in vacanza o  a divertirsi.

La sala del Ristorante della Scula di Serramazzoni e il Direttore Giuseppe Schipano

La sala del Ristorante della Scula di Serramazzoni e il Direttore Giuseppe Schipano

Mentre Filippo impiegava il suo periodo estivo lavorando nelle sale dei ristoranti per “servire e riverire” i turisti al mare, i suoi coetanei, dediti ad altri studi, potevano invece spassarsela, lì in Romagna, nella culla del divertimento. Quando Filippo accumulava ore, giorni, mesi di lavoro c’erano altri che rinunciavano all’offerta di una posizione lavorativa perché non prevedeva le ferie estive.

Particolare della cantina delRistorante Scuola di Serramazzoni

Particolare della cantina delRistorante Scuola di Serramazzoni

Un miracolo della natura o una passione? Il primo non esiste senza il secondo. L’ autodisciplina e la forte determinazione fanno il resto. La fortuna, il caso e l’appoggio dei familiari però aiutano.
Ma le opportunità, per chi si sa distinguere, non mancano mai: disponibile a fare stage all’estero, Filippo ottiene di lavorare al ristorante La Gavroche di Londra. Fa un corso come bar tender all’AIBES  e quindi si diploma operatore turistico a San Giovanni in Persiceto. Concluso questo percorso, non si ferma: ottiene un TOEFL in Australia e quindi parte per gli USA.

Oggi nuove prospettive gli sono davanti: l’età e l’esperienza acquisita sono diventati un trampolino già elevatissimo da cui potersi lanciare sin da ora. Sono in molti ad avere bisogno di addetti alla sala, di barman e di personale preparato a svolgere quei servizi che nelle piccole realtà provinciali non vengono riconosciute ma che a livello internazionale possono posizionare una ristorazione di qualità nei gradini dell’eccellenza.

Per concludere…

Prima di oggi non si sarebbe mai riusciti a parlare di mestieri come il “cameriere” o il”cuoco” o il “barman” riconoscendo loro il valore che si meritano se non ci si fosse resi conto di quanti e quali valori essi possano contenere e di quanto possano essere rappresentativi nel mondo di un certo patrimonio di cultura di un Paese.

Affettatrice Berkell d'epoca

Affettatrice Berkell d’epoca

Così come “è accaduto che la dimensione culturale del cibo e di tutto ciò che storicamente gli ruota attorno (attenzioni materiali e mentali, saperi e tecniche, strumenti e simboli) è stata finalmente recepita nella coscienza collettiva”, allo stesso modo i mestieri che riguardano questa cultura, nella loro considerazione più professionale, sono stati arricchiti di contenuti e di significati che richiamano l’intero patrimonio culturale di una società.

“ Se di questo oggi siamo più consapevoli, non è solo perché possiamo permettercelo (perché nella nostra società il cibo non è più un problema di sopravvivenza quotidiana) ma anche perché le ragioni del corpo hanno finalmente fatto breccia nella nostra visione dell’uomo e della storia. Con la scoperta che le ragioni del corpo portano con sé quelle dello spirito, e che non esistono cose senza simboli, né simboli senza cose. Ciò che è tecnica, è sapere, è cultura. Cultura del lavoro che da sempre sostiene le necessità quotidiane dell’uomo e anche i suoi piaceri, giacché non sta scritto da nessuna parte che il bisogno non possa accompagnarsi al piacere; che la storia della fame sia altra cosa dalla storia della gastronomia.” (Massimo Montanari Docente di Storia Medievale e Storia dell’Alimentazione Università degli Studi di Bologna).

*Un sincero grazie al Direttore Giuseppe Schipano della Scuola Alberghiera e di Ristorazione di Serramazzoni e a Daniela e Filippo, protagonisti della storia.