L’invisibile che riesco a vedere

Se io guardo non è che vedo.

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al lago durante la quarantena – aprile 2020 – foto di P. Ferrari

Anche il dizionario Treccani online lo dice: infatti ‘guardare’ è “Dirigere gli occhi, fissare lo sguardo su qualche oggetto ( non include necessariamente l’idea del vedere)” mentre ‘vedere’ è “Percepire stimoli esterni per mezzo della funzione visiva”.

Mai come ora la vista ci sta aiutando a sopportare il confinamento in cui ci ha costretti la pandemia.

Lo fa aiutandoci a “scappare” – anche se solo con la fantasia – dalle quattro mura in cui siamo castigati. Lo fa anche impedendoci di vedere cosa succede alle tante persone colpite dal virus e a quelle coinvolte con loro (parenti, medici, infermieri).

Ma da sola la vista non basta.

prato in fiore

prati fioriti senza anima viva – marzo 2020 – foto P.Ferrari

“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. ” L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo” (Da Il Piccolo Principe di A. de S. Exupery)

Se non facessimo ricorso al ricordo degli altri sensi – come il tatto, che ci riporta al calore degli abbracci e del sole, o l’udito, col chiasso della compagnia delle persone nei bar all’aperto – se cioè non trasformassimo lo sguardo in uno zoom sensitivo-temporale che scorre tra passato e presente, tra il prima e l’ora, forse la vista sarebbe solo un senso vuoto.

Lo stesso vuoto in cui capita di sentirsi adesso, in questo periodo.

Fotografare in giro (si fa per dire) riesce però a restituirci dei pezzettini che compongono il nostro modo di vivere ora, e ce li mostra mentre li rimettiamo in ordine.

“In fondo, in ogni visitazione dei luoghi, portiamo con noi questo carico di già vissuto e già visto, ma lo sforzo che quotidianamente siamo portati a compiere, è quello di ritrovare uno sguardo che cancella e dimentica l’abitudine; non tanto per rivedere con occhi diversi, quanto per la necessità di orientarsi di nuovo nello spazio e nel tempo”  (L. Ghirri, Paesaggio Italiano, Milano 1989, p. 14).

Adesso si può fotografare l’invisibile.

Ritagliandoci quella piccola fetta di mondo che fa parte della nostra quotidianità, possiamo vedere quello che di solito fatichiamo a notare o perché manca il tempo – sempre di corsa – o perchè chissene frega di stare a guardare quello che si vede tutti i santi giorni.

Ma cos’è invisibile?

E’ vedere la faccia sperduta di chi non ce la fa più e ora si chiede come mai sia ancora costretto a starsene a casa come un carcerato. E’ cogliere l’espressione di chi porta a passeggio il cane e sembra fare il vigile urbano a cui tutti i passanti sembrano colpevoli rei confessi. E’ sentire il senso di smarrimento delle persone che non riescono più a ritrovare la vita di prima.

E’ uno sguardo tra le sbarre per cogliere quello che oggi ci rimane.

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bambine al balcone durante la quarantena – aprile 2020 -foto di M. Rusconi

In questo vuoto fisico degli spazi che abbiamo sempre riempito, c’è anche il vuoto acustico delle strade e degli ambienti che ricordiamo quando ci hanno accolto tutti insieme, a socializzare.

Non ci sono nemmeno i bambini nei parchi giochi e i parchi veri invece sono chiusi.

Stiamo pur guardando da dietro le “sbarre” di casa nostra, ma, per fortuna ne abbiamo anche una di case (chi ce l’ha), e la salute ancora ci accompagna.

Abbiamo ritrovato un silenzio intorno che non avevamo mai sentito.

Niente inquinamento acustico, più spazio alla natura che si sta riappropriando dei vuoti fuori (è facile vedere caprioli per strada o pappagallini a Milano sulle piante dei quartieri).

Aldo dalla finestra

vacanze forzate in pandemia – foto P. Ferrari

Per non dire di altri modi che ci siamo inventati per mantenere uno stile di vita il meno diverso possibile da prima, come per esempio fare il pane o la pizza in casa (il lievito è introvabile nei supermercati), inventarci parrucchieri o estetiste per farci belle.

E per ritrovare la socialità perduta, dai terrazzi delle abitazioni si consumano aperitivi che si allungano tra i convitati con bastoni da selfie, e si provano performance musicali che variano tra il canto e l’esecuzione strumentale.

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pranzo sul terrazzo a Milano – foto C. Sanvito

Così a Milano si cena sul terrazzino di un palazzo di quartiere anche se il panorama sono gli altri edifici di fronte.

Capita anche che le vie solitamente attraversate dalle auto siano ora zona franca dove possono scorazzare indisturbati animali selvatici mai incontrati prima (daini o caprioli, scoiattoli o lepri).

Insomma, assieme agli autisti che guidano il bus praticamente vuoto fino a destinazione, insieme ai volontari che sono in giro a portare la spesa agli anziani rimasti soli, insieme ai prof che si spendono per mantenere un livello di lezioni adeguato per i loro allievi anche se online, beh in mezzo a tutto questo invisibile che cerca di conservare una parvenza di normalità quando nulla è più come prima, sorge spontaneo solo un grazie.

Perché?

Perché anche nel nero che stiamo attraversando, si riescono a vedere cose molto positive.

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un sentiero durante la pandemia – aprile 2020 – foto P. Ferrari

Contrasti e alleanze di moda.

Francia-Italia: un’abbinata famosa da sempre, ma di recente ancor più famosa non per un match sportivo, ma per un duro scontro di politica economica. Sempre lì: due paesi confinanti, due nemici secolari. Suona anche buffo.

Nella moda – per citare uno dei campi dove lo scontro è storico – la Francia ci è sempre stata al fianco non come alleata, ma come la rivale più agguerrita.

Campione delle prove di ricamo del Ricamificio Laura di San Martino in Rio (R.E.)

E se Pascal Morand, Presidente Esecutivo della Fédération Française de la Couture, du Prêt-à-Porter des Couturiers e des Créateurs de mode, sulla piattaforma del Google Cultural Institute, We Wear Culturepuò affermare che

la cultura per la moda francese deriva direttamente dalla tradizione delle arti decorative e dell’alta moda, documentata già nel 1298 (…) “e che “fu Maria Antonietta, che iniziò a liberare il corpo femminile mentre adornava le sue creazioni con ricami, pizzi e petali di rosa

è un peccato non leggere su quel portale dichiarazioni altrettanto altisonanti sui meriti delle creazioni italiane .

La moda, nonostante la forte evoluzione tecnologica,  è ancora un settore in cui  la maggior parte della produzione si basa sul “fatto a mano”  .

Una bella azienda.

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La sala operativa dell’azienda Ricami Laura di San Martino in Rio

Così mi ha molto incuriosito scoprire il “ricamo mano-macchina”, un processo che a parole sembra un controsenso, ma che nella realtà racconta dell’alleanza non solo possibile, ma anzi fondamentale, tra uno strumento – la macchina – ed il tecnico esperto che sa usarla,  non meno che tra un’attrezzatura obsoleta  e le sue attuali possibilità

Visitando il Ricamificio Laura di San Martino in Rio ho potuto vedere la bellezza di queste produzioni. Sefano Bonaretti, suo Presidente, mi ha accompagnata a conoscerlo. Vi lavorano 45 donne  –  dai 30 fino ai 60 anni – signore che altrimenti sarebbero rimaste disoccupate, perché fuoriuscite da un settore ridimensionato per chiusure e fallimenti,  dove la competizione globale si è giocata soprattutto sulla capacità di  contenere i costi, con  manovalanze despecializzate e non locali.

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Stefano Bonaretti mentre controlla alcuni lavori in corso di realizzazione all’interno della sua azienda Ricami Laura

Sono tutte lavoranti – come mi riferisce il loro datore di lavoro – con un contratto a tempo indeterminato, così inquadrate per farle sentire parte dell’azienda. Stefano dice che “hanno mani preziose”: fanno ricami a mano-macchina, cioè  lavorazioni con macchine a pedale ormai fuori produzione, degli anni ’70-’80, reperite da ex ricamifici. Sono macchine Cornely o Bernina, adatte a ricami con filati e materiali di vario tipo: dai metalli, alle catene, fino alla plastica, il ferro e le pietre.

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Una macchina del Ricamificio Laura

La magia di quest’orchestra è la manualità e l’armonia viene garantita da un maestro unico, cioè da una responsabile che guida la produzione completa del capo.

La sua storia.

Le origini del Ricamificio Laura risalgono all’apertura del primo laboratorio, negli anni ’90, ad opera della mamma di Stefano, Laura Magnanini, e che oggi è presente in azienda come responsabile dei modelli. Laura è diventata un’ imprenditrice dopo l’esperienza lavorativa nel ricamificio locale di Luigi Malavasi.

Laura Magnanini

Laura Magnanini, fondatrice del Ricamificio Laura

Erano gli anni del boom della moda, quelli che hanno anche rappresentato la fortuna di tanti piccoli laboratori artigianali fioriti a quell’epoca  per l’intuito e l’intraprendenza di  alcuni addetti del settore.

Ricami dell’archivio storico Gianfranco Ferré realizzati da RIcami Laura

Poi, come vuole ogni bella storia, arriva a San Martino un cavaliere bianco – lo stilista-architetto Ganfranco Ferrè –, si innamora di quell’’attività e se ne “appropria” nei panni del suo monocommittente.  Sarà un matrimonio duraturo,  che si interromperà alla morte dello stilista nel 2007.

Questa pluriennale collaborazione  rimarrà per sempre in eredità al Ricamificio  che la porterà con sè come sua capacità di riuscire a collaborare con tutte le figure dello stile – dai designer, ai responsabili di prodotto fino alle modelliste – per costruire le proposte di una  collezione di moda.

 

La crisi e la rinascita.

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Una addetta dell’azienda Ricami Laura mentre completa un tessuto per Gucci

Ma gli anni 2000 sono il periodo in cui non si fanno più regali a nessuno: la crisi è ovunque e per il Ricamificio sarà fatale la morte del mentore Ferrè.

E’ in questo momento di difficoltà che Stefano rientra dall’America. Con la sua esperienza in ambienti fortemente competitivi come quelli del cinema, dove studiava e lavorava, Stefano può mettersi a disposizione dell’azienda di famiglia, temprato e allenato per resistere e riuscire.

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Stefano Bonaretti, Presidente di Ricami Laura con prove ricamo perFerragamo

Con lo stesso spirito pragmatico degli uomini del fare americani, Stefano intraprende la strada della promozione commerciale sulle pagine dei social e intercetta così l’interesse degli uffici studi delle principali Maison della moda.

Comincia con Ferragamo donna, proseguendo poi con Giorgio Armani ed attirando a ruota tutti i big del settore come Gucci, Tom Ford, Givenchy, Burberry, Hermès, Dior, Cavalli, e così via.

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Addetta al lavoro per un ricamo Gucci

In due anni Stefano riesce a quintuplicare il fatturato dell’azienda di famiglia.

Materie prime del Ricamificio Laura

Disponendo di un meraviglioso archivio storico delle collezioni ricamate per Gianfranco Ferrè, il Ricamificio ha, oltre ad un biglietto da visita autorevole, un campionario del suo saper fare. 

Una competenza che tutti noi  ignoriamo quotidianamente perché prima di tutto la moda la viviamo come un’espressione formale di noi stessi, senza che ci riguardi particolarmente il fatto che al valore delle sue forme, dei colori e dei dettagli con cui ci veste corrisponde un lavoro incredibile che sta all’origine di quei capi.

E’ la moda, cioè anche industria.

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Macchine elettroniche nel Ricamificio Laura all’opera per la produzione di patch

Per i francesi la moda rappresenta un’eccellenza nazionale di cui vanno orgogliosi. Tanto che Pascal Morand, può affermare che

nel complesso essa rappresenta l’1,7% del PIL francese, il 2,7% se includiamo l’occupazione, in particolare quella correlata ai servizi e il suo effetto sull’indotto, che rappresenta complessivamente 1 milione di posti di lavoro. Sorprendentemente, è superiore al valore combinato di industria automobilistica ed aereonautica” (da Google Cultural Insttute – We Wear Culture).

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Ricami per tessuti Gucci

Allora perché mai nessun nostro rappresentante ha fatto simili dichiarazioni d’orgoglio nazionale per promuovere la moda italiana sul portale del Google Cutural Institute,  consultabile da chiunque nel mondo? Perché non possiamo leggervi anche che il valore dell’industria dell’abbigliamento italiana pesa 7 punti percentuali del PIL (nota Pitti Immagine mag 2016)? Perchè loro – i francesi – raccontano a tutto il mondo che

la creatività ed il successo degli stilisti e dei marchi francesi non possono essere scissi dall’esperienza dei laboratori e degli artigiani che si occupano della manifattura dei loro prodotti, trattandosi di una cultura che deriva direttamente dalla tradizione delle arti decorative e dell’alta moda.“ ?

Quello che intorno tocchiamo quotidianamente con mano, quello che sentiamo dai diretti protagonisti che fanno, lavorano e producono, tanto nell’abbigliamento quanto in altri comparti legati all’artigianato artistico, e che ci dicono persone come Stefano e chi collabora con lui, nella sua azienda, racconta di fatiche e di grandi difficoltà quotidiane nel portare avanti ogni giorno quella che è prima di tutto una passione e, non secondariamente, un impegno di lavoro ed una responsabilità.

Eppure gli italiani…

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Un’addetta intenta al lavoro nel Ricamificio Laura mentre lavora ad un capo di Valentino

Eppure nonostante la nostra storia parli dell’Italia come di un territorio popolato da una miriade di piccole-medie realtà, fatte di laboratori e atelier che portano avanti un “saper fare” fortemente radicato nel nostro DNA, ciononostante, tutti – dagli economisti ai politici – temono il “nanismo”, cioè la piccola impresa.

Ma Toscana, Emilia,  Marche – per citare alcuni territori – hanno tradizioni secolari in ambito artistico-artigianale. Sono cioè giganti storici. Sarà allora la paura di apparire obsoleti? o di perdere primati tecnologici mai detenuti?

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Macchine elettroniche nel Ricamificio Laura

Si tratta di sentimenti di inferiorità senza fondamento perché in realtà, come succede nel caso del Ricamificio Laura, la tecnologia viene utilizzata comunque, anche se solo negli ambiti in cui la si ritiene efficace. Un esempio della sua applicazione è la gestione delle relazioni commerciali e la promozione dell’attività tipica del laboratorio, oppure la realizzazioni di grandi commesse come quelle dei patch (si utilizzano infatti le macchine elettroniche della foto).

Il legame tra creazione e tecnica in effetti permette la produzione di quelle piccole serie, tipiche della tradizione artigianale, che oggi si contraddistinguono come pezzi personalizzati ed unici, così come richiesto dalle regole del lusso.

E’ quindi al lusso che possiamo riconoscere uno straordinario potere di conservazione delle tradizioni e del sapere. Oltre a permetter ai tanti che sanno fare qualcosa con le mani ed alle comunità di quel territorio, di poter lavorare, il lusso rappresenta un motore di sviluppo sostenibile.

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Applicazione per Gucci del Ricamificio Laura

Che fare?

Ma quali sono concretamente le difficoltà?

Burocrazia, concorrenza sleale dei numerosi laboratori che clandestinamente “inquinano” il mercato, stretta creditizia delle banche nei confronti dei neo-imprenditori, mancanza di fiducia nel sistema paese ancora privo di una precisa linea di politica industriale: già questo impedisce di liberare le nostre migliori energie.

Nonostante ovunque si possano trovare in Italia bellissime realtà produttive, simili al ricamificio Laura, è tangibile sempre l’assenza di chi dovrebbe promuovere al mondo questo importante ‘saper fare’, che ci rappresenta.

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Filati del Ricamificio Laura

Chi potrebbe promuovere allora l’eccellenza?

Da soli non si può far molto di più di quanto già si è impegnati a fare: è il sistema, in quanto soggetti, istituzioni e politica uniti da obiettivo condivisi e comuni, che deve creare condizioni fertili per far eccellere chi merita. La politica deve innanzitutto mostrare una maggior consapevolezza del potenziale produttivo dell’Italia, e delle competenze di cui dispone.

Turismo, artigianato, cultura e arte sono gli asset forti di cui disponiamo ma vanno gestiti in modo sinergico.

Abbiamo e produciamo bellezza, perché nessuno – eccetto i nostri detrattori – se ne ricorda mai ?

Tessuti realizzati coi dettagli ed i ricami di Ricamificio Laura per Missoni

 

Riuscire a volare in alto

uno scorcio dello spazio dell’Atelier dell’Errore Big . Nella parete il disegno: “Cracker mangia le cirlider pon pon”

In aprile ho incontrato Luca Santiago Mora.

E’ successo nello spazio bianchissimo del 3° piano, nella sede storica di Max Mara – oggi sede della stessa Collezione  – che dal 2015 l’imprenditore Luigi Maramotti ha messo a disposizione dell’Atelier dell’Errore Big.

E fin da subito ho conosciuto un ambiente fatto da persone lungimiranti e generose, al servizio del bene di tutti.

Ed è lì che abbiamo parlato di quello che Luca fa.

Luca Santiago Mora negli spazi dell’Atelier dell’Errore Big, presso la Collezione Maramotti

Nel racconto emerso in quell’incontro c’è dentro la storia di un progetto artistico. Ma c’è anche la storia di una “scultura sociale”; il racconto di un’esperienza felice dai risvolti collettivi.

Nondimeno c’è la storia dei successi di chi quotidianamente è talmente abituato ai propri fallimenti e alle continue delusioni, da non riuscire a ricordare nemmeno se potrà mai fare qualcosa, figurarsi poi se quel qualcosa sarà importante.

Tutto ciò è successo e succede all’Atelier dell’Errore.

Cominciamo dall’inizio: cos’è l’Atelier dell’Errore e chi lo frequenta?

in primo piano il disegno: “Verme Assassino che mangia tutti quelli che attraversano il mare”, 70×200 cm, 2014, Nuru

L’ Atelier dell’Errore nasce nel 2002 per caso, quando un’amica chiede a Luca di sostituirla nella conduzione di un laboratorio di attività espressive svolto a servizio della Neuropsichiatria Infantile dell’Ausl di Reggio Emilia, come collaborazione con L’Indaco di Reggio Emilia.

Luca non è un atelierista, è un artista visivo che, come tale, non si accontenta di fare un buon lavoro di atelier ma vuole dar voce alle potenzialità espressive dei bambini e dei ragazzi che accoglie.

Si tratta in genere di ragazzini con problematiche cliniche di varia natura, come difficoltà nell’apprendimento, disturbi dello spettro autistico, ipercinesi, ecc. . Categorie mediche che in rapida sintesi hanno a che fare con la neurodiversità (interessante leggere i concetti di Harvey Blume e Judy Singer in proposito).

Con loro Luca ha messo in pratica la sua visione del mondo: si comincia dall’imperfezione e dall’errore, dal senso di inadeguatezza, per arrivare a creare un’opera, andando avanti ad oltranza senza cancellare mai nulla di quanto fatto prima. Perché è dagli errori e dalle imperfezioni che nascono le invenzioni e le creazioni più sorprendenti.

Noi siamo quelli degli insegnanti di sostegno ; quelli che alle feste di compleanno nessuno inviterà mai”.

Sono questi i ragazzi a cui Luca insegna: lavorando sulla loro scarsa autostima, agendo su quegli accumuli di incomprensioni e di autolimitazioni che si sono dati per riuscire a sopravvivere, a scuola e coi compagni.

Nell’Atelier dell’errore questa visione del mondo ha innescato un processo a catena .

Qual è la materia prima di questo lavoro?

Innanzitutto, per poter cominciare, Luca deve riconoscere in questi ragazzi e bambini alcune qualità superiori.

Nelle situazioni di marginalità nelle quali sempre si trovano a “sopravvivere”, sotto la stratificazione delle loro sconfitte quotidiane, loro conservano integre qualità che nessuno ha mai avuto l’occasione di portare alla luce.

nella foto il disegno:”Il Farchio del Sud: va a caccia di Marco e …(i miei due nemici) che mi chiamavano ‘boss bambino’ e ‘bambino obeso senza speranza’ e li fa vivere nei loro stessi incubi”,  Atelier dell’Errore Big

Lo si vede nelle opere che realizzano: disegni, racconti, poesie, danza e performance Non conta la tecnica, ma la qualità del racconto, anzi, conta soprattutto quello che hanno da raccontare.

L’atelier in questo senso è un luogo dove poter trovare un modo per raccontare la propria storia, senza arrendersi alle imperfezioni dei segni sul foglio, senza doversi adeguare a delle aspettative, anche quando prevale la voglia di cancellare tutto e di ricominciare da capo.

E’dentro a questi territori dell’inconosciuto, dentro alla materia umana viva, che prende forma la ricchezza dell’Atelier dell’Errore.

Nell’Atelier dell’Errore si parla solo di animali. Non si parla di storie della mamma, di vasi di fiori.

Ci si specializza per diventare monotematici e fare un laboratorio di narrazione. Poche sono le tecniche utilizzate: pastello a cera e matite. Ciò che conta è di arrivare direttamente al centro del contenuto perché loro stessi sono il contenuto.

Cosa succede alla fine?

nella foto il disegno: “Catoblepa che si nutre delle parti molli dei bambini”- 125×300, 2014, Francesco, Atelier dell’Errore Big

In un secondo momento Luca interviene per far accettate le qualità che ha riconosciuto ai ragazzi. Loro infatti sono i primi ad essere disorientati in quanto abituati più a riconoscersi nelle mancanze come il  “tu non sai allacciarti le scarpe; tu non riesci a…” piuttosto che nelle competenze.

L’ approccio come quello di un artista – in tal caso Luca – può vedere altro, anzi, oltre, ed è un tale approccio che li può aiutare a riconoscersi in quel nuovo mondo.

Per far sì che il processo venga attivato occorrerà che le qualità riconosciute vengano messe in pratica IN GRUPPO.

i ragazzi dell’Atelier dell’Errore in gruppo alla fine della loro improvvisazione teatrale “Piccola Liturgia per Santa Chiara”, durante il Festival di Doppiozero, al Teatro Rasi di Ravenna, il 9 aprile 2017

Nell’Atelier dell’Errore non si fa talent scouting ma si lavora alla creazione di una sorta di organismo dove ciascuno è complementare ed interscambiabile all’altro. Chi racconta delle storie non necessariamente deve saper disegnare bene, ma può coinvolgere quelli con una bella mano e più in difficoltà nel racconto. In questo senso l’Atelier dell’Errore è come una partitura musicale: i ragazzi sono gli strumentisti inconsapevoli capaci di produrre suoni molto belli, arcaici mentre Luca – che dirige l’atelier – è il maestro che sa orchestrarli.

Riuscire a volare in alto.

Il beneficio di questo processo, dal punto di vista clinico, come contributo alla neuropsichiatria, consiste soprattutto nella conquista di autostima e di una maggior capacità di socializzazione. E l’autostima è il minimo comune denominatore per sopravvivere nell’ ipercompetitività della nostra scuola. Trattandosi di persone che normalmente “non è poi così importante” che facciano le stesse cose dei coetanei, la scoperta dentro  loro di qualità oggettive, superiori, richiama un solo obiettivo: fare di tutto perché quelle qualità emergano e vengano riconosciute.

nella foto il disegno: “La Remora Ade”, Nicolas, proiettato al Teatro Rasi di Ravenna in occasione del Festiva di Doppiozero, 9 aprile 2017

In Atelier si applica un’arte relazionalesi fanno uscire le risorse latenti che tutti hanno dentro e che, sulla carta si trasformano – e trasformano loro – in opere d’arte. Perché lì vince essere se stessi, avere qualcosa da dire, non essere banali: tutti ingredienti che il conformismo e l’efficienza hanno reso un bene scarso

Ai medici si regalerà questo lavoro sull’interiorità, sulla riscoperta dell’energia interiore. Una scoperta psicologico-spirituale che consentirà loro di affrontare al meglio le terapie.

Ai ragazzi il regalo concreto arriva con la partecipazione a mostre ed eventi internazionali come quelle a Monaco di Baviera, a Londra, a Venezia e a Milano; con premi prestigiosi come l’European Art Award del 2014, o con la pubblicazione dei propri disegni in libri di cui  “L’ atlante di zoologia profetica” edito da una delle case editrici più prestigiose, è l’ultimo uscito.

un momento della Piccola liturgia per Santa Chiara, al Teatro Rasi Ravenna, in occasione del Festival di Doppiozero,  9 aprile 2017

L’arte può fare questo: non può guarire dalle patologie ma può creare una condizione interiore favorevole  capace di generare un meccanismo virtuoso di positività e di apertura al mondo.

Fino ad arrivare in alto, là dove in pochi possono sperare di arrivare.

I miracoli esistono.

Dai “salti mortali” compiuti per sviluppare e rodare il processo di cui sopra, è nato il primo miracolo che consegna ai ragazzi un  senso di autostima .

Da qui nasce la libera università dell’Atelier dell’Errore dove i ragazzi ed i bambini sono i docenti di questo mondo dell’ultrazoologia e di cui loro stessi hanno una conoscenza insindacabile.

Il secondo miracolo è stato quello di aprire nel 2013 un Atelier a Bergamo perché il protocollo sanitario della Lombardia non prevedeva finanziamenti per servizi a complemento della clinica. Ma soggetti privati – come il Rotary, la Fondazione della Comunità Bergamasca e la signora, Martina Fiocchi Rocca – hanno dato il proprio sostegno economico a questo progetto artistico e sociale, che rappresenta un’attività pubblica,  aggiungendo anche un’altra persona illuminata tra i contributori dell’Atelier.

“E’ un miracolo anche il fatto che in Italia ci siano dei privati che regalano un servizio completamente pubblico e gratuito come quello svolto dall’Atelier dell’Errore per il servizio di neuropsichiatria infantile di Bergamo.”

Il terzo miracolo è stato l’Atelier dell’Errore Big.

Il passaggio ai servizi dell’handicap adulto, al compimento dei 18 anni,  rappresenta in effetti un dramma per le famiglie – e i loro ragazzi – che si ritrovano così schiacciate in un sistema dove i processi dell’Atelier non hanno più spazio. E’ quindi naturale che i genitori di questi ragazzi, a cui è stata modificata la percezione di se stessi, chiedano di poter continuare quell’attività che ha permesso – e permette – ai loro figli di fare qualcosa che non li rigetti nell’oblio.

uno scorcio degli spazi dell’Atelier dell’Errore Big, presso la Collezione Maramotti

Sebbene Luca riconosca di “non avere la bacchetta magica” per cambiare il corso delle vite, la sua proposta di progetto di Atelier per i maggiorenni, nel 2015 convince  l’imprenditore Luigi Maramotti ad offrire gli spazi della Collezione.

Questi ragazzi ora si ritrovano a lavorare lì dentro, a contatto con una delle più prestigiose collezioni del mondo

“Senza fare nulla di più, ma per il fatto stesso di trovarsi a lavorare lì dentro, negli spazi della Collezione Maramotti, loro sono già un’opera d’arte e ne percepiscono appieno il valore.”

Luigi Maramotti (di spalle) e Marco Belpoliti al Festival “Enter, chiamata degli artisti in forma di festival” , di Doppiozero, al teatro Rasi di Ravenna, il 9 aprile 2017

E dopo?

Nella Collezione Maramotti c’è il posto del dopo: l’Atelier dell’Errore Big.

Se la funzione degli atelier è inizialmente quella di fare “terapia occupazionale”, la sfida vera che si è assunto Luca è piuttosto quella di fare una scommessa su ognuno di questi ragazzi, per accompagnarli in una sorta di

paleontologia immanente fatta di pastelli e di risorse che nemmeno loro sanno di avere”.

Atelier dell’Errore si è aggiudicato un finanziamento dalla Fondazione Alta Mane, che ha reso possibile prolungare l’attività di laboratorio per un  giorno intero di 8 ore.

Il progetto futuro sarà quello di farne dei professionisti, cioè persone che possano vivere di questa attività come di un lavoro.

I ragazzi e io ci siamo utili a vicenda: facciamo programmi, progetti, definiamo delle modalità di rapportarci all’esterno che sono nostre. Giovanni De Francesco – artista visivo – da alcuni anni ci aiuta nella progettazione, negli allestimenti e nelle installazioni delle performance, una parte a cui i ragazzi tengono tantissimo.”

Ad arte Verona, la prima mostra, i ragazzi hanno capito che devono andare in giro. A Londra, all’Istituto Italiano di Cultura erano insieme a Marco Belpoliti, Massimiliano Gioni e ad Arturo Galansino, direttore del Museo di Palazzo Strozzi. Quello che hanno provato lì, con 150 persone presenti per vederli, sarà un ricordo per tutti e otto.

E questo è quello che rimane, per sempre.

I loro disegni, negli spazi della Collezione Maramotti, hanno un valore che altrove,  senza il riconoscimento di un pubblico, non potrebbero avere.

Andare per mostre, insieme, essere apprezzati,  è e rimane un valore indelebile per questi ragazzi. Una ricchezza dentro a cui potranno sempre attingere. La quadratura del cerchio oggi,  dopo tanti anni, consisterà proprio nell’andare in giro ad incontrare il loro pubblico.

Lo spettacolo al Teatro Rasi di Ravenna con Doppiozero,  dove i ragazzi dell’Atelier dell’Errore si sono esibiti con un’improvvisazione teatrale, il 9 aprile scorso,  ha mostrato una platea incantata, silenziosa durante l’esibizione. e grata e commossa alla fine. A Ravenna inizialmente hanno invitato solo Luca, ma lui ha chiamato tutti, circa 50 persone tra ragazzi e genitori.

“E’ questa la mia attività: fare una scultura sociale, attraverso il disegno, video e performance. Coi ragazzi dell’Atelier”

Luca Santiago Mora durante l’improvvisazione Piccola Liturgia per Santa Chiara coi ragazzi dell’Atelier dell’Errore al Teatro Rasi di Ravenna, per il Festival di Doppiozero, 9 aprile 2017