Mani, Macchine, Ingegno e Creatività? Cosa ci serve ?

-Perché queste donne spaccano le pietre a mano mentre le macchine restano ferme in un angolo?
– Perché così lavorano più persone che con le macchine non avrebbero invece un salario. La manodopera fa lavorare in tanti.

Così rispondeva una guida in India alle domande dei curiosi sul lavoro che lì si faceva mentre le macchine stavano ferme ad arrugginire.

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Locali delle Officine Meccaniche Reggiane – foto  luglio 2017 @maninmente

Negli spazi delle Ex Officine Meccaniche Reggiane, il quartiere industriale dismesso, dietro alla stazione di Reggio Emilia, si respira un’aria che sa dell’esatto contrario: un’area immensa, prima popolata da tutti gli addetti di quell’industria meccanica che oggi sopravvive in buona parte abbandonata e svuotata.

Sullo sfondo delle rovine campeggiano i murales e i graffiti delle pareti, in un’atmosfera in cui si sente soprattutto l’eco delle riflessioni impossibili da evitare qui.

Edifici esterni nel quartiere delle Ex Officine Meccaniche Reggiane – foto Luglio 2017, @maninmente

In questo enorme contenitore di quasi 300.000 mq, dove dal 1904 sorgono le OMI,  Officine Meccaniche Reggiane meglio conosciute come le Reggiane, ha sede il più grande parco d’Europa di Street Art.

Diversi artisti, dai più noti ai meno famosi, hanno lasciato il loro segno : Rhiot, Gas, PsikoPatik, Caker e Collettvo FX, Hang, Bibbitó, Reve+, Lante , Astro Naut, ecc.  Fare un elenco di tutti pare impossibile.

Interni di uno degli edifici nel quartiere delle Ex Officine Meccaniche Reggiane – foto Luglio 2017, @maninmente

Lì dentro c’è una dimensione della memoria che sfugge guardandola oggi. Il presente dell’area è degrado e abbandono, e la sua espressione più forte sono il silenzio e le tracce di qualche abitante abusivo  (senza tetto, balordi, disperati).

Stando alle notizie più recenti le istituzioni provvederanno al recupero ed al rinnovamento di un’ulteriore porzione mentre silenzioso continua il movimento spontaneo di riappropriazione di quei muri con gli street artist che  li “pittano” dal 2012, facendone un punto di riferimento per la street art nazionale e internazionale.

graffiti all’interno dei locali abbandonati delle ex Officine Meccaniche Reggiane – foto agosto 2017 @maninmente

Una forma artistica spontanea per andare alla ricerca di una nuova identità che prenda il posto di quella originaria degli operai di quella grande industria, coi loro significati ormai superati, alla ricerca di un “estremo presente”  che ancora non sappiamo bene decifrare.

Murales delle Officine Meccaniche Reggiane – foto luglio 2017, @maninmente

Che ne sarà di quel lavoro, di quelle competenze e di questi spazi?  Che ne sarà di noi che nel lavoro ci rappresentiamo ed abbiamo ancora quello come unico modello di riferimento importante?

Qui lavoravano circa 12.000 dipendenti; qui hanno avuto luogo importanti fatti storici del secondo conflitto mondiale (il bombardamento dell’area il 7 e 8 gennaio 1944, i 368 giorni di occupazione di protesta dei lavoratori e l’eccidio dei 9 operai nel 1943); qui oggi c’è un tecnopolo ed è in corso di realizzazione un importante progetto di recupero urbanistico.

Sono strati sovrapposti di storia che raccontano dei cambiamenti di quella originaria città di 70.000 abitanti con la sua provincia, e le sue persone.

Come non fare delle riflessioni?

La storia delle Officine Meccaniche Reggiane.

resti di un edificio delle ex Officine Meccaniche Reggiane, foto agosto 2017, @mninmente

La prima di queste, parte da qui: le Reggiane sono state

un’azienda di alto profilo tecnologico, … che doveva agire nel deserto industriale dell’Italia fascista (e dell’Emilia ancora agricola e rurale), costretta  a scontare i limiti del ritardo dello sviluppo produttivo ed economico del paese…” e che iniziava 60 anni dopo l’avventura  della tedesca Siemens ( così M. Storchi, responsabile dell’archivio storico di Reggio Emilia, nell’introduzione del libro “Reggiane- cronache di un grande fabbrica” di M. Bellelli).

Questa iniziativa imprenditoriale dei primi del 900 che ha in Giuseppe Menada il suo deus ex machina,  è stata per la città di Reggio e i  dintorni una vera e propria rivoluzione che ha portato l’attività industriale in un territorio quasi esclusivamente agricolo.

Un volantino pubblicitario dei prodotti delle Ex Officine Meccaniche Reggiane – foto Agosto 2017, @maninmente

Una fabbrica dove si costruivano carri ferroviari, strumenti bellici (proiettili, ogive ecc.), impianti e macchinari per molini, silos, risifici, pastifici e laterizi, aereoplani e motori per l’aviazione, armi e munizioni non c’era mai stata prima a Reggio, in Emilia. Gli unici grandi complessi esistenti erano quelli del triangolo industriale di Genova, Milano e Torino.

promozione prodotti Reggiane fine anni 30, dal libro ” Le Reggiane raccontano la città” di A. Canovi

Pochi non ricorderanno le immagini della gru per il recupero del relitto della Costa Concordia:  quella gru è stata costruita nelle Reggiane.

 E la storia delle attività delle persone da lì uscite.

“Allora, poter dire che eri un operaio delle Reggiane era un titolo…il sogno di un giovane, in una provincia interamente dedita all’agricoltura”…: 

questo è il ricordo di Aldo Magnani, un uomo del ’20,  prima operaio alle Reggiane e poi alla Maserati dal 1950 fino al 1960.

disegni di progett in uno degli edifici nel quartiere delle Ex Officine Meccaniche Reggiane – foto agosto 2017, @maninmente

Grazie al lavoro e alla formazione delle maestranze nelle scuole lì dedicate, i più intraprendenti tra gli addetti hanno potuto avviare numerose iniziative che rappresentano oggi la ricchezza imprenditoriale del nostro territorio.

Alle Reggiane hanno lavorato Emidio Benevelli, fondatore dell’azienda Benevelli Transaxles di Rubiera, Renato Brevini e il fratello Luciano,  padri di quella che oggi è una delle più importanti aziende nel settore, la F.lli Brevini, Michele Rossi ed Emo Campari della RCF (Radio Cine Forniture), Cesare Campioli, sindaco della Liberazione e fondatore dell’ azienda OMSO (Macchine di Stampa su Oggetti) leader mondiale e  Mirco Landini, delle omonime aziende Landini .
Senza dimenticare Emore Medici, ex operaio  che realizzò il modellino del celebre caccia Re2001, prodotto  negli anni Quaranta, e Franco Reggiani che si ricorda anche per il monumento alla Ferrari nei pressi del casello autostradale di Reggio Emilia.

Volumi delle Reggiane nell’Archivio storico di Reggio Emilia – foto settembre 2017 @maninmente

Impossibile di nuovo citare tutti, ma per tanti di loro vale il fatto che sono riusciti a mettere a frutto il bagaglio di capacità e competenze acquisito in quell’esperienza di lavoro realizzando per così dire “un’ epica”.

Questo bacino di manodopera ha generato, nel tempo e con le discontinuità che la vita reale comporta, la fioritura economica che oggi colloca le province di Reggio e Modena nel cluster della meccatronica. Ma ha anche prodotto soprattutto un trapasso conoscitivo  dotando le persone addette ai lavori di quello know how che poi ne ha fatto la fortuna.

Significativo è il fatto che da quella fabbrica sono uscite capacità individuali potenziate e non schiacciate dall’omologazione del lavoro a catena;  l’inventiva e l’intraprendenza del singolo hanno prevalso, così come ci è “italianamente” più consono.

resti di bombolette spray degli street artist, fuori nell’area delle ex Officine Meccaniche Reggiane, foto luglio 2017, @maninmente

Oggi.

E lì, in Via Agosti, delle Reggiane allora cosa rimane?

In concreto, ciò che si può  toccare subito con le mani e vedere con gli occhi, sono solo quei muri dipinti, suggestivi e talvolta violenti nel loro messaggio di protesta. Per il resto al momento rimangono gli sterpi, i detriti e le macerie per rivendicare nuova vita.

Molti da lì hanno potenziato le proprie abilità manuali; tanti hanno fatto fortuna. Ma tutto ciò è accaduto tempo fa.

Interni di un edificio nel quartiere delle Ex Officine Meccaniche Reggiane – foto agosto 2017, @maninmente

Oggi leggiamo di una ripresa che consiste in un inaspettato 1 virgola percentuale e che viene interpretata più come esito degli investimenti nella robotica che ad altri tipi di produzione manifatturiera.

Cosa significa? Che i grandi problemi rimangono perchè questa crescita non necessariamente genera incrementi significativi di occupazione.

Si contestano le piccole dimensioni delle imprese economiche nazionali ma, come dimostra l’avventura delle Reggiane, forse noi – italiani – non riusciamo a sostenere dimensioni industriali importanti.

Il nostro punto di forza rimangono e rimarranno le dimensioni medio piccole, superate le quali solo le multinazionali ne potranno trarre giovamento.

Eppure la visione spicciola ma di buon senso che ci faceva intuire la guida indiana dell’inizio di queste pagine indicherebbe che tutti potrebbero lavorare al prezzo di un abbassamento tecnologico dei modi di produzione.

Ma il mondo non va più così .

murales alle ex Officine Meccaniche Reggiane, foto luglio 2017, @maninmente

Anche l’atelier dell’artista sparisce?

Per enfatizzare fino al paradosso (che poi non lo è tanto) il pensiero, all’ultimo festival della filosofia ,  Franco Vaccari  artista modenese – dichiarava che non esiste più l’atelier. Cioè nell’arte – Vaccari in tal senso si riferiva all’arte concettuale – il “fare”, la produzione a mano,  non esiste più.  Gli sopravvive non tanto l’oggetto artistico quanto piuttosto il concetto artistico, cioè l’ idea e la creatività. 

Rinoceronte dell’artista belga Dzia, nei muri delle ex Officine Meccaniche Reggiane, fotografia del luglio 2017, @maninmente

Sarà un paradigma della nuova narrazione che ci aspetta?
Dovremo soprattutto pensare, ideare, creare e progettare? Saranno queste le nuove competenze con le quali potremo colmare il gap tra occupazione e disoccupazione?

Sono domande importantissime, molto significative di questi tempi in cui, prima di riuscire a dare delle risposte concrete, i molti  senza le competenze utili per poter pensare, progettare, concettualizzare il loro lavoro non ne usciranno indenni . Per non parlare poi, più poeticamente, di quelli che sono appassionati del loro lavoro, fatto con le mani. Innamorati del piacere che il fare restituisce rispetto al pensare.

Oggi non ci sono le risposte ma leggendo l’evoluzione del passato sino ai nostri giorni conviene prepararsi a prendere le strade che si aprono davanti cogliendo subito quello che serve per attrezzarsi.

Così facendo si può spingere anche chi ha le redini politiche a fare scelte più efficaci.

Sfiggy, murales e personaggio di Alessio Bolognesi, Ferrara, classe 1978. Nelle ex Officine Meccaniche Reggiane, foto agosto 2017, @maninmente

Un ringraziamento speciale a Massimo Storchi, responsabile 
dell'Archivio Storico di Reggio Emilia, che mi ha fornito preziose
informazioni e mi ha mostrato l'archivio. 
Grazie anche a Michele Bellelli, autore del Libro "Reggiane, cronache di
una grande fabbrica italiana" a cui mi sono appassionata per scrivere 
di questo argomento.
Grazie anche ad Annalisa che per prima mi ha accompagnata in questo splendido luogo.
Da non perdere a Reggio Emilia, il prossimo mese di novembre 2017,
l'importante mostra dedicata alle Reggiane.

A porte aperte: in teatro e non solo…

Il Teatro Sociale Gualtieri anche quest’anno, l’ 8 e il 9 aprile scorsi, ha aperto le sue porte al pubblico grazie all’iniziativa A scena aperta” promossa dall’IBCper diffondere la conoscenza e valorizzare i teatri storici dell’Emilia Romagna. Un patrimonio artistico straordinario diffuso nel territorio con ben 34 sedi.
Nella prima edizione dell’iniziativa su queste pagine ho parlato delle origini storiche del Teatro Sociale di Gualtieri.
Stavolta parlerò delle persone che ne hanno fatto la storia più recente.

Cosa ha spinto dei ragazzi poco più che ventenni ad avventurarsi in un’impresa che ha portato all’attuale Teatro Sociale Gualtieri? Ha pesato di più il gusto della sfida o l’incoscienza del giovane?

Riccardo Paterlini

Questa è la prima domanda a Riccardo Paterlini, Presidente dell’Associazione Teatro Sociale di Gualtieri e direttore organizzativo. A vedere la struttura architettonica di questo edificio, così ricca del suo vissuto storico e così moderna nello stesso tempo, la domanda è spontanea. E’ dal racconto di Riccardo che provo a ricostruire la storia di questa avventura, paradigmatica nel suo recente traguardo oggi lieto-fine.

L’incontro.

Riccardo racconta che quando l’hanno “incontrato”, il teatro era uno spazio abbandonato: mancava del palcoscenico e della platea, era completamente buio e invaso da terra, da polvere e calcinacci, e ricoperto da tutto quello che era avanzato dai lavori di consolidamento. Ciononostante, lui ed alcuni suoi amici, tutti ventenni, incantati dal suo fascino, hanno cominciato ad immaginare di portarci, riadattando l’originale, lo spettacolo itinerante da loro rappresentato a Poviglio, in un’oasi naturale,
All’epoca non si rendevano ancora ben conto di cosa avrebbero potuto fare, ma tanta era la fascinazione per quello spazio e le sue condizioni, che si prodigarono per ottenere il beneplacito dell’amministrazione comunale e della pro-loco per poterlo frequentare. Musa ispiratrice dell’avventura fu l’amica e pittrice Maria Luisa Montanari, che ben conosceva il teatro in quanto addentro ai primi lavori di consolidamento.
E’ il 2006 quando il gruppo di amici decide di mettere in scena uno spettacolo che segnali a tutti l’abbandono di quel luogo chiuso da 30 anni. Lo spettacolo è la rappresentazione di un’asta alla quale il pubblico – e di conseguenza l’amministrazione comunale da esso sollecitata – viene invitato come ad un evento reale. Grande è lo scalpore creato, ma in realtà l‘obiettivo ultimo della performance mira a far credere al pubblico la messa in vendita del teatro per sollecitarne l’attenzione e spingerlo ad intervenire a tutela del proprio patrimonio culturale.
L’abbattimento simbolico del muro che ne chiudeva l’entrata oltre a chiudere la rappresentazione, segna l’ inizio di una nuova vita per tutti.

Inizia l’avventura.

Ma chiuso un capitolo si apre quello più prosaico dei problemi. Enormi.

Come  riaprire concretamente uno spazio per recuperare il quale la sola volontà non sarebbe mai bastata ma occorreva invece  attrezzarsi concretamente?
Il gruppo di amici era costituito da 10 ragazzi, tutti con velleità artistiche e con tanti sogni in tasca: fare cose, belle, e magari farle proprio lì dentro. E’ da lì che è cominciata la loro vita dentro al Teatro, in un misto di clandestinità e di ufficialità, proprio come si conviene alle avventure più intriganti.
Almeno fino all’inverno del 2008.
Alla fine di quell’anno il Comune annuncia l’arrivo dei finanziamenti per la ristrutturazione dei teatri di Luzzara, Reggiolo e Gualtieri invitandoli indirettamente a lasciare libero lo spazio. Si erano finalmente sbloccati i fondi e qualcosa si poteva cominciare a fare: una vittoria per i ragazzi mista a delusione per i tanti piccoli lavori autocostruzione ora nelle mani ingenerose di grosse imprese.
Ma tra amici – giovani – il pensiero positivo è sempre la nota dominante, non meno dell’istinto creativo. Così propongono all’amministrazione di festeggiare l’inizio dei lavori con una prima programmazione teatrale nel cantiere; unica richiesta: un impianto elettrico per gli spettacoli e l’agibilità per 100 posti.
La risposta dell’Amministrazione Comunale che ha aperto le porte a questi giovani, scommettendo su di loro, non è stata da meno quanto a positività.

La prima stagione del teatro.

uno scorcio del teatro

Prima degli spettacoli si è dovuto provvedere ai numerosi lavori: dalla costruzione della cabina di regia e della biglietteria, alla levigatura e verniciatura della platea in legno, alla realizzazione delle porte di emergenza fino alla programmazione teatrale con una compagnia e con gli artisti. Il tutto in autofinanziamento, con ricerca di sponsor.
E’ il marzo 2009 quando il gruppo diventa un’associazione di promozione sociale e a giugno si comincia con una ventina di serate di spettacolo. L’esito è incoraggiante.
Nel frattempo quei finanziamenti che sarebbero dovuti arrivare si sono persi sotto le macerie del governo che li aveva approvati (Governo Prodi). Così quella che nasceva come un’esperienza “effimera” si trasforma man mano in un’avventura di lungo termine.
Nel 2010 e nel 2011 si replica l’esperienza di spettacoli ma alla fine dell’ultimo anno diventa urgente lanciare un allarme: sino ad allora l’attività era stata garantita a titolo gratuito, come esperienza di volontariato, ma per renderla duratura servivano finanziamenti. Perciò si rendeva necessario un contatto istituzionale che si aggiungesse a quello del Comune di Gualtieri. E siccome i problemi non arrivano mai da soli, nel frattempo la platea stava cominciando a dare i primi segni di cedimento strutturale.

L’esperienza del “teatro in rada” e del “cantiere aperto”.

Da lì è nata l’idea del “teatro in rada”: un teatro nave, ferma in rada per lavori di manutenzione. Lavori sia di struttura che di autocoscienza. Su quest’ultimo versante ci sono domande che interpellano l’associazione non meno che la comunità intorno: cosa si sta facendo, si vuole che l’attività del teatro continui, e se sì, come si può continuare?

manifesto del teatro in rada, “cantieri navali per una stagione in secca”

Ed è a quel punto che anche nella stessa comunità ha cominciato a risvegliarsi un senso di partecipazione tradottosi in contributo manuale ai lavori.
E’ stata quella la fase più significativa che ha decretato la notorietà su scala nazionale dell’ avventura: nella cornice del “teatro in rada” il “cantiere aperto” ha portato avanti i lavori di ristrutturazione della platea. Più di una trentina di persone, che si alternavano una sera a settimana, per un anno e mezzo, hanno spalato una quantità totale di circa 500 tonnellate fra terra e calcinacci.
Nel “cantiere aperto” si procedeva con la ristrutturazione reale della platea rimuovendone il pavimento di assi, numerandole ad una a una e restaurandole. Contemporaneamente, con la programmazione “teatro in rada”, la partenza dei lavori diventava l’occasione culturale dalla quale generare la narrazione dei “lavori di calafataggio del fasciame delle imbarcazioni”, i “lavori in rada” del teatro.
Così, in un gioco di finzione e realtà, di assoluta teatralità, il cantiere diventa scenografia per letture a carattere marinaresco e la serata di cantiere si alterna con serate di spettacoli fino alla fine.
Dalla lettura della “Ballata del vecchio marinaio” di Coleridge, attraverso “Moby Dick” di Melville finendo con pezzi di letteratura italiana del ‘200 e del ‘300 a tema marinaresco, il teatro mutava progressivamente aspetto. Durante la messa in scena – come artificio teatrale – erano state smontate tutte le assi e nel frattempo Giancarlo Illari , attore e intellettuale di Parma, leggeva la “Ballata del vecchio marinaio”. Man mano che le assi venivano rimosse, Illari veniva isolato dal resto del mondo sopra una specie di zattera metaforica. La volta successiva, in una scenografia fatta da una landa di sabbia – rimosse tutte le assi della platea – si cominciava a scavare, e nel contempo lui proseguiva la sua lettura, che la volta dopo diventava una lettura medioevale come “La nave dei folli” di Sebastian Brant. Illari, solo, su una barca scenica, con intorno alcune delle buche scavate e riempite d’ acqua, rievocava  durante la sua narrazione anche il cantiere reale, popolato dagli stessi cittadini di Gualtieri che aiutavano nei lavori di manovalanza in modo costante e attivo.

cartelloni della programmazione teatrale

Ma quale meta avevano in mente?

“In tutto questo c’è quel margine di incoscienza che è la salvezza in ogni cosa. Ricordo che quando proposi questa attività avevo preventivato al gruppo 3-4 mesi di lavoro mentre in realtà ne sono serviti 18”.

Tutti i lavori sono stati progettati ed eseguiti dai componenti dell’associazione e da volontari – i murattori,  “lavoratori dello spettacolo altamente intesi” – che hanno realizzato un’opera messa a preventivo per un valore di 150.000 euro. Poi, sui materiali, c’è stato il contributo del Comune con 10.000 € e la partecipazione di varie altre aziende private, sponsor. E tra le sorprese degli scavi c’è stato il rinvenimento di un pavimento di Giovan Battista Fattori del 1705 e…di una falda d’acqua: i lavori così si sono svolti  con pompe e fango.

Nel maggio 2012 rimaneva da risistemare solo il tavolato ma poi… è arrivato il terremoto.

E ancora una volta è arrivata in soccorso l’immaginazione creativa : così è nata una soluzione ispirata a quello che fanno gli sfollati. Il palcoscenico si è trasferito all’aperto, in piazza, e l’inizio della programmazione è stato inaugurato da Ezio Bosso, che ha dedicato il suo concerto alle “cose che rimangono” .
E’ il maggio 2013 quando finalmente si inaugura “la platea ristrutturata” .

E oggi’?

il teatro visto dall’alto

Ad oggi il Teatro Sociale Gualtieri rappresenta un festival nazionale, finanziato dal Ministero e dalla Regione, ed è un’associazione in veste di impresa culturale under 35.

I problemi sono stati e sono tuttora tantissimi: trovare finanziamenti è stato estenuante, proporsi sul mercato come giovani non lo è stato di meno, senza le introduzioni e l’esperienza di chi è già più rodato. Ma ciononostante il gruppo è decollato e lo ha fatto proprio negli anni della crisi, il 2009 .

In questa storia i protagonisti principali sono le persone, i giovani e …l’ incoscienza, cioè quell’attitudine dell’animo che oggi – a risultati ottenuti – pone dubbi di fronte alla domanda di rito:“lo rifaresti?”.

Diego Rosa, murattore e accompagnatore durante la visita

Quell’incoscienza è stata insieme una scommessa e un investimento per un futuro di lungo respiro, senza nessuna idea di cosa avrebbe portato, ma è stata vincente.  Anche perché forte dello spirito del gruppo: tutti amici con un interesse comune e una visione unitaria. Un gruppo rodato nel tempo che poi si è allargato e magari si allargherà ancora e si rinnoverà.

Nel futuro Riccardo immagina un produzione teatrale, con residenza per gli artisti negli spazi ancora da recuperare del teatro. Per tutto questo serviranno altri finanziamenti.

cartellone dei prossimi spettacoli al teatro

Però sembra che i sogni allora non smettano mai. Per fortuna!

Per vedere e sentire questa storia come la raccontano le immagini e le parole di Riccardo, potete guardare il video che segue realizzato dalle riprese di Augusto Ruggiero di ArtMaker Tv .  Lo trovate sia su You Tube che all’indirizzo qui .

Tour emiliano tra burattini e burattinai.

Il tour.

Pensare ad un viaggio di piacere in Emilia può sembrare improbabile. Eppure lì sono numerose le mete ricche di sorprese, se ci si lascia sedurre da un certo suo fascino.

Un tour inusuale e un po’ speciale potrebbe essere quello in visita ai musei dei burattini.

Mappa dei musei e dei fondi di burattini in Emilia Romagna- IBC E-R. cd."chi è di scena"

Mappa dei musei e dei fondi di burattini in Emilia Romagna- IBC E-R; fonte: CD : “Chi è di scena” 2009

Se capitate al Castello dei Burattini – il  Museo “Giordano Ferrari” di Parma – sarà impossibile non cogliere in quell’allestimento l’ amore del suo padre fondatore, il burattinaio parmigiano Giordano Ferrari, o meglio, sarà impossibile non percepire la pienezza di quella vita dedicata alle “teste di legno”.

La sua appassionata dedizione al mestiere si ritrova nelle sue stesse parole riportate nel cartellone che accoglie i visitatori all’ingresso: Ferrari le dedica ai burattinai, perchè “non vada perduto il ricordo di tutti i colleghi e i nuclei familiari che lottarono contro la miseria, le tribolazioni, con poche gioie e molti sacrifici per conservare e migliorare quest’arte nata, io penso, con l’uomo e donando ad essa, con semplicità, tutta la vita.” (foto)

In giro per le strade, nei mercati e nelle piazze delle città, i burattinai erano i cantautori, gli sceneggiatori teatrali, gli autori e i giornalisti dell’epoca, i comunicatori e gli artisti di strada di oggi, impersonati tutti in un’ unica medesima figura.

E l’Emilia Romagna rappresenta la terra dove, tra la fine del ‘700 e i primi dell’800, nasce e si sviluppa il maggior numero di burattinai. Due sono le scuole più famose che qui hanno origine: quella bolognese e quella modenese. Due saranno i diversi approcci che le distingueranno, in quanto riferiti ai diversi assetti politico-istituzionali dell’una e dell’altra sede (Bologna, Ferrara e la Romagna sono sotto lo Stato Pontificio, Modena, Reggio, Parma e Piacenza, sono invece Ducati).

I burattinai.

Veduta di Piazza Maggiore Bologna con casottino di burattini; sec. XVIII - Collez. Fondaz. Cassa Risp. BO

Veduta di Piazza Maggiore Bologna con casottino di burattini; sec. XVIII – Collez. Fondaz. Cassa Risp. BO

Già a partire dal 600-700 tutti i burattinai, chi più o chi meno con consapevolezza o con ingenuità, si facevano portavoce dei sentimenti popolari e del malcontento della gente.

Insieme alla gente condividevano riso e pianto, trasmettevano nelle piazze e nei mercati la loro satira politica e le notizie locali, e in tal modo ne diventavano i principali diffusori.

Il teatro dei burattini si esibiva in spettacoli sempre all’aperto, ed era un mestiere che aveva bisogno di spostarsi nelle diverse località, per produrre. Le sue rappresentazioni si basavano principalmente sulla parola, spesso sboccata e volgare, e quindi più esposte alla censura delle autorità.

Le maschere.

Dentro al Museo tantissimi sono i personaggi che si incontrano: le “maschere senza maschera” – cosiddette per contrapporle alle tipologie della Commedia dell’Arte (Arlecchino, Pulcinella,Brighella, Pantalone, ecc.) – ognuna tipicamente legata al territorio d’origine o alla scuola di riferimento.

Fagiolino - foto del Castello dei burattini di PR

Fagiolino – foto del Castello dei burattini di PR

Fagiolino è originario della zona allora più povera e malfamata di Bologna, Via del Pratello, dove bazzicavano delinquenti e prostitute: è impertinente, sboccato, vive di espedienti ma usa il bastone per difendere i più deboli. Sogna tagliatelle e giustizia per tutti.

Sandrone - Castello dei burattini PR

Sandrone – Castello dei burattini PR

Sandrone, personaggio ignorante ma furbo  di Modena, è un contadino di mezza età, ha un certo buon senso ma fuori dal suo ambiente combina solo pasticci. Dal 1846 diventa la  famiglia Pavironica, con la moglie Pulonia e  il figlio Sgorghiuelo.

Nel museo non poteva mancare il carattere parmigiano  diBargnòcla maschera Castello dei Burattini di PR

Bargnòcla – Castello dei Burattini di PR

Bargnòcla. Ispirato al calzolaio Vladimiro Valesi (o Favalesi), abitante dell’Oltretorrente (antica zona di Parma), deriva il suo nome dal grosso bernoccolo che ha sulla fronte  e che lui sostiene essere una “voglia di osso di prosciutto”. Non poteva quindi che essere simbolo di uno spirito gaudente, amante del cibo e del vino, dal carattere gioviale, sarcastico e polemico. Nel museo sono esposti diversi Bargnòcla che ne documentano l’evoluzione del carattere.

Bargnòcla - Castello dei Burattini PR

Bargnòcla – Castello dei Burattini PR

Gli spettacoli del teatro delle figure animate – quello dei burattini in particolare – sono tutti comici e i loro intrecci si basano sul conflitto. Si tratta di un tema vecchio come il mondo che mette in scena i litigi, i battibecchi e le invidie dei personaggi, ognuno intrappolato nella sua quotidiana lotta contro le ingiustizie, la miseria e la fame.

E il burattinaio, attraverso i suoi burattini, spesso non si esimeva dal dire la sua su tutto questo.

 Un mestiere dalle tante facce.

Il mestiere del burattinaio era meno oneroso di quello del marionettista e ciò lo ha reso un’attività più diffusa : non necessitava di strutture complesse nè di molte persone. Ne bastavano 2, attrezzate con la “muta”, cioè di tutte le teste di legno che servivano per gli spettacoli in repertorio.

Romano Danielli con Fagiolino e Sandrone - Foto IBC E-R

Romano Danielli con Fagiolino e Sandrone – Foto IBC E-R

Fare il  burattinaio tuttavia non significava solo metter in scena una rappresentazione: a volte,  quando non faceva ricorso ad intagliatori, ebanisti e scultori ( per es.: Enrico Frabboni, o Antonio Saccomanni di Lendinara intagliatore) che producevano i pezzi in sua vece, era lui stesso l‘intagliatore delle teste di legno della sua muta. Ne era anche il decoratore dei visi e il sarto produttore dei costumi.

Oggi.

Oggi di tutta questa tradizione è rimasta una  flebile traccia: i nuovi media, televisione, cinema e  web hanno il predominio sui ritmi e sugli spazi dello spettacolo e della comunicazione.

Ma sia chi si è guardato negli anni ’70 Topo Gigio o negli ’80 i Muppets Show, sia chi oggi guarda al cinema film d’animazione, come Box Trolls o Coraline, animati con la tecnica dello Stop Motion, non può dimenticare che si tratta dei pronipoti di quel mondo più lento ma lo stesso non meno fantastico dei burattini e delle marionette. Quel mondo ha avuto sviluppi e trasformazioni importanti il cui senso e la cui evoluzione conta anche per le tecniche future.

E fa piacere però sapere che ancora oggi sono rappresentati spettacoli bellissimi. Segnalo qui quelli del Teatro Gioco Vita di Piacenza (e non solo) che con nuove tecniche, nuovi linguaggi e rinnovate suggestioni riescono a far sognare non solo i bambini ma anche i grandi.

 

 Si ringrazia la dr.ssa Micaela Guarino di IBC Emilia Romagna per le preziose fonti che mi ha fornito per documentare questo articolo e si ringrazia IBC E-R per conservare, catalogare, restaurare e aver cura di questo patrimonio unico che possiamo così raccontare per raccontarci.