Il Teatro di Gualtieri: dalle stanze del dottore fino al teatro rovesciato.

C’era una volta uno spazio, appiattito lungo le paludi della Bassa Reggiana. Un posto dove la gente poteva anche morire d’inedia o per gli acquitrini intorno. Lì – e precisamente a Gualtieri – comincia la storia del  Teatro Sociale ,  un  racconto da conoscere  perchè ricco  di  belle storie, di persone attive e di bei finali a sorpresa. E’una storia da raccontare  perchè il Teatro di Gualtieri è un teatro magnifico, un luogo davvero particolare: non finito, diroccato, spezzettato in tanti spazi. Un luogo unico e suggestivo.

Devo per forza cominciare da qui – primo di due articoli –  per dare un’idea completa di questa splendida realtà della Bassa Reggiana. Una  terra tormentata prima dall’acqua delle paludi e poi, in anni più recenti, dal terremoto del 2012.

Per vederlo dal vivo ed ascoltare la sua storia dentro ai suoi muri, e con le parole di una sua mur-attrice, ho approfittato della due giornate –  “a scena aperta”  – che IBC Emilia Romagna ha organizzato con l’apertura al pubblico dei teatri storici della regione.

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la mur-attrice Carla che accompagna le visite durante “A scena aperta”

L’“incontro” col teatro di Gualtieri ha un duplice effetto: subito l’edificio fisico, “teatrale”,  imponente da fuori e grazioso e duro dentro, ingombra la vista.  E’ integro nella sua versione originaria, non manipolato cioè con interventi di recupero invasivi; si presenta coi suoi anni (anzi secoli, ormai) e le sue cicatrici, senza nessun artificioso make up.  Poi quello spazio si fa teatro anche dentro di te, perché esagera. Un po’ come le contraddizioni della Palermo barocca, devastata dall’incuria e dalla cementificazione, ma così passionale nelle sue contraddizioni da non poterti lasciare indifferente. E’ un luogo che “appare come se fosse stato sventrato da un bombardamento in tempi di guerra”.

 

L’edificio dove nascerà il Teatro di Gualtieri è Palazzo Bentivoglio, una fortezza del 1600 voluta da Cornelio e Ippolito Bentivoglio per ospitarvi la famiglia con la sua corte. Ma se l’idea originaria era quella di offrire una splendida magione ai suoi residenti, dal 700 quell’edificio subisce il tragico destino delle vittime delle scorrerie di guerra: segnato dai vandalismi, spogliato di tutto e quindi ridotto ad alloggio delle milizie di passaggio.

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la platea e il palcoscenico dai palchi del teatro

Nel 1750  interviene il Comune che lo acquista per farne il palazzo comunale e metterlo così al servizio della comunità locale. Ma l’acqua incombe sempre minacciosa sulla zona e per controllarla si sacrifica una  consistente porzione dell’edificio destinandola agli argini (i “pennelli frangi-corrente”) di protezione dal fiume.

 

Il palazzo, pensato originariamente come dimora privata, entra nella mano pubblica e, guarda caso, si trasforma nell’abitazione del medico condotto e del chirurgo e “somministra i comodi per la pesa, per il macello, per il dazio della ferma, salina e grani per le sue moliture, e quartiere alla guardia della ferma, oltre i magazzini inservienti ai bisogni pubblici”.

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il fronte del teatro di Gualtieri

Poi finalmente arriva l’architetto Giovan Battista Fattori che, oltre ad intendersi di edifici, è un appassionato di teatro e guida un gruppo di attori dilettanti. Sarà lui che nel 1775 trasformerà le stanze adibite ancora ad alloggio del medico e del chirurgo nel piccolo Teatro Principe. Tutto ciò col beneplacito e la gioia della comunità che benedice l’iniziativa in quanto fonte di occupazione e impiego della gioventù dell’epoca. Lì immagina solo  “ onesti divertimenti e per istruirla e renderla vantaggiosa e liberarla dall’ozio in certi tempi dell’anno “.

Ma nella lunga serie di eventi che si succedono nella storia non poteva mancare l’ incendio fatale, la causa della rovina  del teatro che dopo 99 anni di attività è costretto a chiudere.

Passano gli anni fino al 1905 e  l’amministrazione comunale riabraccia finalmente l’idea di recuperarlo ed ampliarlo. Ma ormai lo sanno già tutti come va a finire perchè  i fondi a disposizione non bastano per sostenere l’impegno economico dell’intervento.

Allora chi arriva? Nessun paladino ma solo chi crede nell’iniziativa, cioè i futuri proprietari dei palchi. Saranno loro ad intervenire in soccorso del teatro fondando nel 1905 la Società Teatrale i cui fondi versati a pegno dell’acquisto dei palchi di primo e secondo ordine permetteranno di contribuire con circa 2.000 lire sulla spesa totale di 25.000 per il recupero del teatro.

Questa sarà la prima manifestazione della “socialità” del teatro di Gualtieri: gli spettatori, i cittadini che vogliono lo spettacolo coi suoi divertimenti, si fanno promotori dell’iniziativa che lo riporterà in vita.

E’ il 1907 quando riapre i battenti il nuovo teatro: torna la ludica vitalità delle scene in queste lande piatte.  Ma poichè già dal 1907 non di sola cultura ci si può divertire, il teatro diventerà anche la sede di feste da ballo e di veglioni di un gruppo di giovani operai – quelli della Palanca Sbusa (il soldo bucato, cioè senza valore alcuno) .

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affresco nel soffitto del retropalco del teatro

La storia va avanti e altri divertimenti si fanno strada: negli anni ’30 all’attività teatrale si aggiunge quella cinematografica grazie all’acquisto di un proiettore. Il teatro di Gualtieri diventa così un centro per il divertimento di tutta la popolazione della Bassa Reggiana. L’attività è frenetica fino a quando non viene messa in crisi definitivamente dall’avvento del cinema.

 

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proiettore Fedi utilizzato per le pellicole del cinema

Sono gli anni ’70 e nel Teatro Sociale di Gualtieri le proiezioni cinematografiche sostituiranno man mano la produzione teatrale con pellicole perlopiù a luci rosse.

L’avvento del cinema domestico, dispensato comodamente a casa da un apparecchio televisivo, segna l’ennesima svolta storica del teatro. 

Così arriva il 1979, anno che decreta definitivamente la chiusura del teatro per i seri problemi strutturali manifestati dall’edificio. Si iniziano interventi di recupero che tuttavia  non vengono mai completamente conclusi a causa dell’annosa scarsità di fondi per la cultura.

L’ultima decadente attività di cui si fa sede il teatro riguarda l’accoglienza di allestimenti di presepi natalizi.

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nelle stanze del teatro dedicate agli alloggi per gli attori

Finalmente è il 2005: è l’anno in cui un gruppo di ragazzi ventenni viene folgorato da questo spazio grazie alle indicazioni di un’amica, coinvolta nei precedenti lavori di consolidamento. Indignata per l’abbandono in cui si è impaludato, riesce a trasmettere agli amici un sogno che diventa un obiettivo comune e rianima di vita quel luogo. Diventa una scommessa: quella di riuscire a recuperare un teatro di memoria storica e di poter esprimere  una passione per la sua scena.

 

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nelle stanze del teatro dedicate agli attori

Così, se per concretizzare un sogno occorre rimboccarsi le maniche, questi ragazzi si alambiccano tra soluzioni creative e mandopera faticosa. Grazie a loro, giorno dopo giorno, il teatro ritrova la sua luce, sia come spazio fisico che come luogo di spettacolo ed eventi teatrali. Una manodopera faticosa perché questi ragazzi – su tacito accordo dell’amministrazione comunale – spalano carriolate di detriti e rimettono a nuovo gli spazi, pensando, scrivendo e provando contemporaneamente idee da metter in scena. Il tutto con mur-attori, cioè attori, muratori e quant’altro serva per far rivivere questo storico spazio di cultura e spettacoli.

 

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un momento di “cantiere aperto” (foto dal sito del  Teatro Sociale di Gualtieri- di Nicolò Cecchella )

La messa in scena che rompe qualsiasi argine di anonimato e di “clandestinità cittadina” in cui stava vivendo il loro “sotterraneo lavorio”, si recita nell’estate del 2006, con l’asta pubblica a cui sono invitati tutti: volantini sparsi nel paese convocano gli abitanti di Gualtieri per assistere alla pubblica vendita del loro stesso teatro.

Partecipano tutti, scandalizzati dall’evento, per impedirne la vendita. La generale mobilitazione della cittadinanza, ignara di stare partecipando in realtà ad uno spettacolo, sortisce l’effetto di risvegliarne le coscienze perché i cittadini convocati si percepiscono stavolta come i legittimi proprietari ma soprattutto perché vengono stimolati a sentire la propria responsabilità nei confronti dei pubblici beni del loro territorio.

Dentro allo spettacolo intervengono 300 persone che simbolicamente accolgono i personaggi delle arti (pittura, scultura, letteratura, poesia e danza) e abbattono il muro che barrica le porte del teatro. Una chiara e cosciente ribellione alla sua vendita.

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manifesti sui muri del Teatro di Gualtieri

Da quella data cominciano i lavori di restauro svolti in forma di totale volontariato, con l’impegno sottile ma coraggioso dell’amministrazione comunale che ha scommesso sui sogni di questi ragazzi appassionati. Si parlerà così di “cantiere aperto” ed il teatro si modificherà sotto le loro mani. Il pubblico stesso , da quella sera, da beneficiario passivo dello spettacolo, diventerà contributore responsabile, con il proprio lavoro, della rinascita del teatro.

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la platea e il “palcoscenico” visti dai palchi

Ma nella storia ci sono anche eventi imprevisti come il terremoto del 2012 che assesterà una battuta di arresto ai lavori. Non sarà tuttavia un deterrente alla voglia di quei ragazzi – ora costituiti in un’Associazione – di fare. Con la rassegna “teatro in rada” verranno portati sul palco una serie di eventi per coinvolgere il pubblico nei lavori di consolidamento. I numeri dimostrano a sufficienza la situazione: 250 tonnellate di terra e calcinacci rimossi con badili e carriole, 120 mq di pavimento storico restaurati centimetro per centimetro. Quasi 50 serate di lavoro con  lavoratori volontari da tutta la provincia di Reggio Emilia. Un’esperienza unica di recupero collettivo di un bene comune. Un esempio da raccontare,  da sentire direttamente dai ragazzi del Teatro Sociale.

Le foto qui raccolte aiutano meglio questo racconto, e il prossimo post potrà aggiunge qualche riflessione in più.

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manifesto d’epoca di uno spettacolo

 

Creatività e creativi al Salone del Libro per Ragazzi

2010-12-07 09.11.36All’età di 5 anni sono stata sorpresa dai miei genitori – che a loro volta hanno sorpreso me con una sonora “ripassata” sul mio fondo schiena – mentre completavo sulle tre pareti libere di una stanza-ripostiglio di tre metri per due, il disegno di alcuni buffi personaggi in dimensioni reali (cioè all’epoca grandi quanto me). Lo shock per le sculacciate lo ricordo ancora perché da allora non ho più manifestato desideri di esprimermi “artisticamente” nel resto della casa. Le mie velleità illustrative da quel momento in poi sono precipitate drasticamente, mentre fiorivano in me spontanee domande sull’ingiustizia del mondo verso la “libera espressione dello spirito”.

Ma questa è un’altra storia, perché quella della Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna è un momento recente, anzi talmente vicino che non si è ancora chiuso, visto che questo fine settimana continuerà con il week end dei giovani lettori che comincia da oggi, venerdì 8 aprile,  fino a domenica 10, con mostre, incontri e laboratori.

Le cifre dell’editoria per ragazzi.

Detta in altro modo, la Bologna Children’s Book Fair è una fiera che, dietro l’immagine fantastica che propone agli adulti – i genitori – ed ai bambini e ragazzi a cui si rivolge, rivela cifre da vera e propria industria della creatività. I dati rilasciati da AIE (associazione italiana editori ) fotografano un settore – quello dell’editoria per ragazzi e bambini –  che nel 2015 è cresciuto del +7,9% con un fatturato che ha raggiunto i 182milioni di euro (nei canali trade, esclusa la GdO; dati Nielsen per AIE);  sono invece 219,7milioni gli euro (+ 5,3% rispetto all’anno scorso) valutati secondo le stime dell’Ufficio studi AIE considerando tutti gli altri canali (toy center, uffici postali, fiere e saloni, GdO, ecc). Ad esso va aggiunto il fatturato derivante dalla vendita dei diritti di libri per bambini e ragazzi che è arrivata infatti a coprire oltre un terzo dell’export complessivo dell’editoria italiana (il 35,6% per la precisione): oggi ne esportiamo 2140, quando solo nel 2001 erano 486 (Ufficio studi AIE per ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane). Dal nostro piccolo osservatorio di genitori, zii, nonni o anche solo amici, ogni famiglia spende annualmente in libri per bambini di 0-14 anni circa 25 euro, ma arriva a spendere fino ad 85 euro per i bambini lettori, nella fascia dei 6-14 anni.

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Il popolo dei creativi: gli illustratori.

Ma quello che mi è capitato di vedere, nel rapido tour in fiera per accompagnare una persona a me cara, è stato un mondo di ragazzi che si aggirava tra gli stand per presentarsi, incontrare persone, instaurare relazioni e magari raccogliere anche idee. Chi sono? Sono gli illustratori ed i narratori – o aspiranti tali – dei libri che compriamo per i bambini. Ad oggi i dati parlano di 273 autori italiani e di 252 illustratori che scrivono e lavorano abitualmente a libri per ragazzi (2016; Fonte: Annuario Andersen). Sono cifre che hanno come proprio contesto di riferimento una popolazione di 8.383.122 bambini tra gli 0-14 anni, e di 5.159.556 bambini lettori di 6-14 anni.

 

IMGP3576Le fiere si sa sono utili soprattutto per le relazioni, per riallacciare o conoscere persone del settore. Io, che al settore non appartengo se non in modo indiretto, in fiera ho potuto rincontrare una ragazza che sta completando il suo percorso di formazione come illustratrice. Parlare con lei mi ha permesso di rendermi conto di quanto la professione, nel back stage, sia davvero durissima. Corsi, scuola, master, chini sulle tavole anche 9-14 ore al giorno nell’attesa di poterle presentare all’art director della propria casa editrice (che è già una fortuna avere), sperando che nulla vada storto e che si possa arrivare ad una rapida intesa reciproca sull’esito finale della propria “produzione”.  Attese, aspettative, sogni, notti insonni, paure, incertezze, ansie, tempo-libero-poco, traslochi ovunque, invasioni periodiche di materiale di lavoro nel proprio privato inseistente, e così via.

E parliamo di ragazzi e ragazze dai 20 anni in su, che investono i propri soldi  ( certo sempre pochi se non sono alimentati anche da altre fonti ) per formarsi ad una professione che richiede idealmente grande creatività ma che necessita più prosaicamente di una grande disciplina personale, di capacità organizzativa e di una importante “scorza professionale” per la gestione dei suoi esiti (sia negativi che positivi).

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Ma in soldoni qual è la percentuale di guadagno per un autore di album illustrati?

Stando alle indicazioni di Davide Calì riportate dal blog “Robadadisegnatori” il contratto standard prevede il 10% sul prezzo di copertina per l’autore, al lordo delle tasse. Se gli autori sono due – scrittore e illustratore – il compenso normalmente è diviso metà per ciascuno, quindi la percentuale diventa il 5%. Il guadagno dipende poi dal prezzo di copertina e dalle copie vendute e per valutare la cifra realizzabile si deve partire dalla tiratura, che cambia da paese a paese. In Italia le tirature per gli album dovrebbero essere sulle 1000 copie, mentre in Francia e Germania, intorno alle 4000-5000, in Spagna forse 2000, e così via. Su un prezzo medio di 15 euro, con 1000 copie vendute, il ricavo per l’autore è di 1500 euro lordi, da ripartirsi tra autore e illustratore se entrambi hanno collaborato al lavoro. Per i libri tradotti in altre lingue e su ogni genere di adattamento o riduzione, cartacea o multimediale come dvd, cinema, tv, ipad – il contratto standard prevede il 50% per l’editore e il 50% da dividere tra gli autori (25%+25%). Mentre la cessione di un libro per l’edizione estera, in relazione al paese che compra, al cambio delle monete, al numero di copie che si stamperanno e al loro prezzo di copertina, si aggira dai 600 a 3000 euro; quindi il singolo autore, che percepisce il 25%, ricaverà dai 150 ai 750 euro lordi. Le royalties invece sono liquidate una volta l’anno e vengono calcolate sui libri venduti nel corso dell’anno solare precedente. “Tra una cosa e l’altra passa un anno prima di sapere come sono andate le vendite e prima di ricevere le royalties. Nel frattempo bisogna fare dell’altro.

In buona sostanza pare – a quanto riferisce Calì – che difficilmente si riesca a vivere di soli libri e tantomeno di albi illustrati, anche se le situazioni sono diverse da persona a persona e dai contesti, per non dire, dalla fortuna. Il fatto è che in genere diventa opportuno affiancare all’attività di illustratore altri lavori che possono aiutare a far quadrare i bilanci personali: si va dall’insegnamento  alle collaborazioni con studi grafici, agenzie, e tutto quello che la propria fantasia e intraprendenza suggeriscono di fare.

Un amico, un po’ di tempo fa, mi segnalava la malinconica parabola di alcuni suoi conoscenti musicisti affidatisi alle scelte commerciali del loro nuovo produttore: l’ ingresso sul mercato risultò loro rovinoso perchè lo stile proposto dalla casa discografica non aveva riscosso l’adeguato successo. Risultato: una débacle che assieme alla perdita della loro originaria identità , ha comportato pure la perdita di tempo e denaro.

Fare libri non deve essere tanto diverso dal  fare dischi. L’estro creativo non paga se non raggiunge un utile compromesso con quello produttivo e commerciale dell’editore, ma viceversa il bilanciamento con la natura commerciale delle proposte non deve mai dissociarsi da un sano senso di “preveggenza”. Come dire che essere un tantino visionari comunque conta.
Gli Stones hanno inciso più di 300 canzoni, ma quelle “rimaste”al grande pubblico sono forse alcune decine.” E il guadagno del lavoro si riesce a fare solo con le grandi cifre di lettori, e non purtroppo con le nicchie di “amatori”.

L’industria della creatività.

D’altronde se la storia ci deve raccontare qualcosa di utile in merito basterebbe riferirsi al mecenatismo, cioè a quella “tendenza a favorire le arti e la letteratura attraverso il sostegno economico di cui quello più interessato – cioè l’investimento di denaro nell’arte – fu un tratto caratteristico dei principi del Rinascimento (per es. i Gonzaga e i Medici), e di numerosi papi e sovrani dell’Età moderna.” (Da Treccani ) . In quel caso il compromesso raggiunto dall’artista col proprio committente non ha mai impedito di trasmettere ai posteri le sue opere migliori che oggi riconosciamo come opere d’arte.

IMGP3582Noi che viviamo in uffici ingrigiti dalla routine potremo sognare di bei lavori creativi, e viaggiare assieme ai bambini lungo le tratte infinite dei loro disegni, delle immagini che ci regalano, ma ciò non potrà cancellare il fatto che si tratta di un mestiere durissimo.

Ho visto amici nel settore rabbuiarsi tetri dietro i propri problemi di instabilità economica e lavorativa, dentro la continua precarietà che li rimette periodicamente in discussione, anche in età più improbabili. L’altra parte della medaglia sarà pure di godere di un mestiere non noioso e uguale per tutta la vita, ma le condizioni che comporta costringono anche gli spiriti meno resistenti a ritemprarsi.
Mi è dispiaciuto molto immaginare le fatiche e la sofferenza che attraversano, anche perchè la maggior parte di loro ha una spiccata sensibilità, occhi attenti e osservatori, e si tratta perlopiù persone che avrebbero piuttosto bisogno di conforto che di rassicurare e blandire editor, agenti e altri.

Soluzioni?

Serve una maggior solidità per l’industria creativa italiana, più sostegno ed una maggior sicurezza nella sua capacità di generare valore per la nostra economia  (e non solo).

Le cifre parlano chiaro (basta leggere il rapporto 2015 Io sono cultura di Symbola ) ma i decisori politici ed economici  meno.

Però c’è di nuovo che oggi in media non si sculacciano più i figli che ci dipingono le pareti di casa né li si ostacola apertamente se vorranno fare i disegnatori.

O no?

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Bella a chi? Scienza e arte a quattr’occhi

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Due mani in atto di esprimere sensazioni tattili – cera realizzata dalla ceroplasta Anna Morandi Manzolini – Museo Palazzo Poggi – Bologna

Di tutte le arti quella di saper vedere è la più difficile” scrive E. De Goncourt e se io su queste pagine ho spesso esaltato soprattutto la mano che sa creare, in realtà faccio ammenda per aver omesso gli occhi, quegli organi di senso che risultano non meno importanti della mano per creare un’opera, che sia d’arte o di produzione tout court.

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Foto di volto al Museo L. Cattaneo di Bologna

Mi è venuta in soccorso la lettura di un articolo ricordandomi che: “la visione è la forma di conoscenza principale della nostra cultura: tutta la storia, non solo dell’arte, ma delle scienze, della biologia, della zoologia, della botanica, potrebbe essere riscritta attraverso la storia della visione.(…) Pensare e vedere non sono azioni scindibili: noi vediamo ciò che pensiamo e pensiamo ciò che vediamo” (Doppiozero: “Il fondamento dell’istruzione artistica è insegnare a vedere” di G. Di Napoli)

Niente di più azzeccato per me per parlare di una visita tra scienza e arte, in due musei bolognesi, lo scorso autunno.

Il Museo delle cere anatomiche e Palazzo Poggi: due wunderkammer fantastiche.

Questi musei espongono dei corpi, così come li si vedeva nell’antichità, con le loro malattie e la loro anatomia dettagliata. Corpi fisici di esseri umani, rappresentati nei loro aspetti anatomici più reali, anche se “crudi”. La scienza del 500 ha beneficiato di questa iconografia realista in quanto finalmente la conoscenza diretta attraverso l’osservazione empirica poteva sostituirsi all’accettazione dogmatica dei precetti dei maestri. Oggi – in epoca in cui tutto è già noto e visto – curiosamente queste immagini destano facilmente più inquietudine. Sembra che il lato nascosto del reale contenga una sua “oscenità”, in particolare quando ad essere rappresentate sono le malattie ed il funzionamento fisiologico dei corpi. Non siamo abituati a considerare il senso estetico né l’armonia del reale degli apparati scheletrico-muscolari, o digestivi, delle tavole anatomiche. Siamo invece pronti ad accogliere ciò che in modo convenzionale e conformistico è riconosciuto come bello (ed anche efficiente).

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Modello anatomico dell’apparato visivo e parti ad esso connesse – Ceroplasta Clemente Susini – Museo L. Cattaneo – Bologna

Sono musei che rappresentano le nostre wunderkammer, le stanze delle meraviglie per alcuni o degli orrori per altri. Luoghi in cui sono raccolti gli unicum e i mirabilia, cioè oggetti inconsueti, capaci di muovere emozioni, ripartiti a loro volta in naturalia (quelli della natura) ed artificialia (quelli creati dall’uomo). Le wunderkammer sono un fenomeno tipico del ‘500, che si sviluppa nel ‘600 e si protrae fino al ‘700 con le curiosità scientifiche dell’illuminismo, e rappresentano al suo primo stadio il concetto di museo. E se nulla avevano a che vedere con i moderni musei, bastarono a dirottare il collezionismo verso un nuovo modo di riordinare ed esporre le collezioni scientifiche.

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Museo Luigi Cattaneo – Bologna

Il museo Luigi Cattaneo di Bologna, detto anche museo “delle cere anatomiche”, è una wunderkammer per le magnifiche cere che vi sono esposte, sintesi del matrimonio oggi inusuale tra arte e medicina. Vi sono esposte cere anatomiche normali e cere del corpo umano patologico, realizzate fra il 1700 e il 1800.

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Museo di Palazzo Poggi, “Stanza di Notomia” con le statue realizzate da Ercole Lelli – Bologna

Ma anche il Museo di Palazzo Poggi, non lascia meno incantati del primo: nella sezione dedicata all’anatomia ed all’ostetricia sono esposte cere magnifiche: quelle di Ercole Lelli (1702-1766) ) , e quelle di Anna Morandi (1714-1774) e del marito Giovanni Manzolini.

 

L’arte e la scienza

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De Bononiensi Scientiarum et Artium Instituti atque Academiae Commentarii, Bononiae, 1731- Biblioteca del Museo di Palazzo Poggi, in funzione dal 1724

A guardare – insieme ad una guida che spieghi questi manufatti – ci si può ritrovare proiettati in un mondo affascinante, la cui cultura incanta per quella magica combinazione di concretezza e superstizione che riesce a trasmettere. Affascina soffermarsi sul fatto che quell’approccio medico appariva più vicino all’ “artista” – per le sue caratteristiche di immaginazione e “creatività” – di quanto non si possa oggi pensare. Quotidianamente questi professionisti erano costretti a dover immaginare l’invisibile causa delle malattie che dovevano curare nei loro pazienti, avendo come unica risorsa la loro capacità di collegamento dei sintomi al contesto di vita ed alla cultura, cioè il semplice intuito. Rispetto all’artista a questi medici mancava solo la consapevolezza di essere tali. Oggi non è più così: ragioni di “opportunità legale” spingono i medici a ragionare soprattutto in modo strettamente scientifico, in base a prassi e protocolli ufficiali, per non doversi poi ritrovare vittime di probabili denunce per errori o negligenze o azioni presunte tali.

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Ercole Lelli, Statue di spellati, scheletro naturale e cera, metà XVIII secolo circa – Museo di Palazzo Poggi , Sala dei Paesaggi – Bologna

La rappresentazione materica della ceroplastica

La libertà di apprezzare la bellezza del corpo umano attraverso l’anatomia inizia col Rinascimento e giunge attraverso l’Illuminismo fin a parte dell’800.

L’anatomia era una disciplina dai confini incerti, in bilico tra medicina, filosofia, cosmografia, estetica e arte. Ma la dissezione anatomica del corpo umano favorirà lo nascita e lo sviluppo della medicina occidentale . Entrambi, medici e artisti, attingeranno alla stessa fonte: l’anatomia. Gli uni per conoscere e svelare i meccanismi del funzionamento del corpo umano, gli altri per dargli vita ed espressione. Le cere anatomiche – che nel 400 nascevano come cere votive, “carne per credenti” – diverranno il mezzo tridimensionale più utilizzato per gli studi del corpo umano in quanto in grado di sopperire alla piattezza delle rappresentazioni del disegno anatomico. Saranno sia “carne per gli artisti” che “carne per gli scienziati”.  Ma non solo: le cere anatomiche venivano anche utilizzate come strumento didattico per insegnare e diffondere l’anatomia a coloro che non erano medici. Chirurghi e levatrici, persone cioè prive di quegli studi classici utili per avvicinarsi ai dotti trattati scientifici, nella pratica avevano bisogno delle conoscenze anatomiche per poter svolgere con successo i loro compiti (come un parto). Perciò le rappresentazioni anatomiche consentivano loro di poter mettere in pratica nella loro attività quanto potevano vedere in “3D”, in un felice connubio ante-litteram tra esperienza, arte e scienza.

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Statua in cera di giovane donna giacente, detta “Venerina” – riproduzione della cera che Clemente Susini (1754-1814) eseguì negli anni 1780-1782 a Firenze – Museo di Palazzo Poggi , stanza dei putti vendemmiatori – Bologna

Oggi le opere di ceroplastica anatomica che vengono esposte nei musei sono giunte integre fino ai nostri tempi soprattutto per  l’interesse scientifico, più che artistico, che suscitavano. Tant’è che non è un caso che siano custodite negli ospedali o presso le facoltà di medicina.

La rappresentazione performativa dell’anatomia: il teatro e il testo illustrato

La dissezione dei cadaveri dal 500 divenne una vera e propria «febbre» dell’anatomia e nel secolo successivo in tutte le università d’Europa l’autopsia rappresentò una pratica diffusa. Negli anfiteatri anatomici le dissezioni venivano praticate come uno spettacolo aperto al pubblico: difatti per assistervi si doveva pagare anche un biglietto. In questo teatro l’anatomista esibiva il corpo umano per mostrarne l’armonia divina.  Ma teatro era anche il libro nel quale le figure vengono esibite nelle diverse pagine: è a Bologna,

primo libro anatomia

Jacopo Berengario da Carpi Commentaria super Anatomia Mundini Bononiae, per Hieronymum e Benedictis, 1521

che nel 1521 esce il primo testo illustrato di anatomia (si tratta del commento all’opera di Mondino di Iacopo Berengario da Carpi). Nel 1543, sarà il fiammingo Andrea Vesalio, che nel “De Umani Corporis Fabrica” – compendio in cui convergono tecnologia, scienza, cultura e arte – rappresenta il corpo come una “Fabrica”, cioè un “laboratorio artigianale” dove si svolgono tutti i processi fisiologici. Il medico ne è l’ osservatore raziocinante. Lo scheletro in quanto fabbrica, struttura, domina la scena e il libro diventa lo specchio di un’esperienza. Le tavole di Vesalio diventeranno un riferimento obbligatorio per le generazioni successive tra cui gli stessi pittori della cerchia di Tiziano che lo adotteranno come testo. Ma dopo Vesalio il corpo umano diventerà “terra di conquista” in base alle nuove scoperte: così Eustachio mappa l’orecchio, Falloppio gli organi di riproduzione femminile, e così via. Emblematico di questo rapporto tra arte e scienza è il quadro ad olio “Lezione di anatomia del Dottor TulpLezione di anatomia del Dottor Tulp, opera di Rembrandt del 1617. Impressionano i medici che assistono alla dissezione con i loro vestiti eleganti, le gote rosate, la barba curata mentre il cadavere sezionato giace bianco e inerme coi medici che si guardano intorno nella più totale indifferenza.

De Humani Corpori Fabrica

De humani corporis fabrica libri septem, p. 184: tavola V dei muscoli

Le botteghe degli artisti di ieri: i ceroplasti

Nelle botteghe degli artisti del 400 il disegno del corpo divenne un percorso obbligato poiché il ruolo dell’artista era quello di fornire immagini nitide e precise che documentassero con serietà e precisioni le parti del corpo. Ai ceroplasti spettava il compito di supportare gli scienziati.

L’arte della ceroplastica si tramandava di padre in figlio; alcuni modellatori raggiunsero la celebrità e furono chiamati a riprodurre l’effige di sovrani e pontefici, morti e vivi. Ogni ceroplasta aveva tecniche proprie che, come tutti gli artigiani-artisti, preferiva non divulgare ed era seguito in tutti i passaggi della suo lavoro da un anatomico-dissettore, che preparava i pezzi da riprodurre prelevati dal cadavere. La parte più difficile e delicata del lavoro era la costruzione del modello definitivo, che richiedeva una precisione estrema e la conoscenza delle diverse sostanze da mescolare alla cera per ottenere la consistenza e il colore voluti. Questa operazione richiedeva un’abilità ed un’esperienza non comuni.

Giovanni Manzolini, la moglie Anna Morandi, Ercole Lelli e Clemente Susini sono alcuni dei nomi dei ceroplasti più famosi delle cui opere si può godere nei due musei bolognesi. Ma della ceroplasta Anna colpisce soprattutto lo studio della trasmissione degli impulsi sensoriali dal cervello agli organi di senso che si sintetizza nella sue splendide cere che rappresentano le mani (nelle foto qui all’inizio e in evidenza). Hanno una plasticità ed una sensuale armonia che è impossibile dimenticare. Ercole Lelli è invece l’autore della prima cera osteo anatomica e degli 6 scorticati della sala di Palazzo Poggi che mettono in evidenza le fasce muscolari. Le cere bolognesi del Lelli, riguardanti l’Osteologia e la Miologia, e quelle dei coniugi Manzolini, comprendenti anche gli organi di senso, di visceri e di ostetricia, sono i più antichi preparati anatomici in cera conosciuti.

Queste opere sprigionano una tale espressività visiva da superare, per forza emotiva, sia la piattezza della pagina disegnata che la monocromia delle sculture tradizionali. Sembrano più vere di una reale dissezione anatomica perchè brillanti e pulite.

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Cere di neonati con varie malformazioni – Museo di Palazzo Poggi – Sala di Camilla – Bologna

Oltre alla rappresentazione di malattie ormai dimenticate i modelli in cera  presentano, con estremo verismo, tutta quella serie di piccoli mostri, neonati deformi, che grazie all’ecografia e all’amniocentesi non vediamo più da decenni. Difficile poterli chiamare bambini: in effetti i medici dell’epoca, facendo ricorso alla mitologia, etichettavano i neonati con un occhio solo, ciclopi, quelli con due facce sulla stessa testa, giani bifronte ,  quelli i cui femori risultavano uniti in un unico, inutile arto, sirenidi.

La bellezza e il dettaglio della finitura, l’arte nel riprodurre i particolari (come i capelli fini e radi) però esprimevano il valore artistico di questi modelli, incapaci di lasciare indifferenti. La ceroplastica è un’arte fortemente emozionale, capace di suscitare nello spettatore i sentimenti più diversi ma raramente l’ indifferenza. In alcuni casi infatti il ritratto di cera, per quest’esasperato realismo, viene utilizzato per rendere immortale il ricordo dei morti nei vivi. Una pratica che sa di macabro e che rimanda a momenti di magia e stregoneria – secondo lo studioso M. Praz – o, da un altro punto di vista,  un modo (sempre piuttosto macabro) per fermare la morte come chi imbalsamava i corpi dei propri cari, illudendosi di poter mantenere per sempre in vita le persone amate.

Gli artisti di oggi.

Questa fascinazione per l’arte della ceroplastica, a partire dal XX secolo diventa sinonimo di musei in vario modo, inaugurando per esempio il ben più celebre Museo delle cere di Madame Tussaud a Londra.  In tempi più recenti è significativo il successo della mostra Body Worlds, l’esposizione itinerante ideata dal medico tedesco e scienziato Gunther von Hagens sul “vero mondo del corpo umano”, in giro in diverse città d’Italia per far conoscere gli organi e gli apparati anatomici umani.

Non è roba del passato. Non proprio. Anzi è giusto l’aver notato numerosi artisti contemporanei che realizzano raffigurazioni “lugubri” o che rappresentano dissezioni, anatomie, scheletri, teschi e simili, che mi ha spinto a indagare il pensiero che li ispira.

Damien Hirst

Hymn, 1999, di D. Hirst, Oro, Argento e Bronzo – Immagine tratta da http://www.osservatoriesterni.it/arte-design/damien-hirst-opere-famose

Damien Hirst è uno dei primi artisti contemporanei che mi è venuto in mente : con le sue sculture giganti di corpi anatomici, dissezionati ( nella foto bronzo dipinto Hymn, 1999 – 2005) o i suoi animali imbalsamati e sezionati conservati in formaldeide.

Stefano Bessoni è un altro artista a cui è andato il mio pensiero.

Stefano Bessoni - Alice

Alice – Stefano Bessoni – foto di Stefano Bessoni

Ma questi sono solo alcuni per dirci che dopo l’indigestione quotidiana di tanto virtuale, in di stimoli alla fine questi corpi ci servono per ricongiungerci con la nostra materialità più vera.

 

L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità” T.W. Adorno.

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Link utili (dei quali ringrazio Bruno Cozzi  Dr.Med.Vet., Ph.D., professor
Dept. of Comparative Biomedicine and Food Science, University of Padova):
Collezioni fondamentali italiane sono presso:
  • il Museo della Specola di Firenze, con le migliori e più famose cere anatomiche. Oltre alle cere anatomiche normali (le più famose) ci sono ache quelle patologiche e quelle botaniche
  • il Museo anatomico dell’Università di Pavia (dove Cattaneo insegnò a lungo e dove ci sono diverse statue miologiche, preparati fantastici. Preparati simili della fine del XIX secolo erano presenti anche a Milano ma non sono più visitabili)
  • il Museo di Anatomia umana dell’Università di Napoli, dove accanto ai preparati anatomici sono conservati gli strumenti divinatori ricavati da parti umane e risalenti al tardo barocco
  • il Museo di Anatomia umana “Giacomini” dell’Università di Torino, importante per la storia dell’anatomia moderna e i risvolti nella storia del pensiero
  • il Museo Lombroso dell’Università di Torino, sintesi del pensiero anatomico normale e patologico dell’epoca positivista

Alcuni di questi musei hanno un loro sito. Le raccolte di molti di loro sono state pubblicate in volumi affascinanti.

Grazie anche al dr. Mancini che mi ha accompagnato nella visita al Museo L. Cattaneo.